di Andrea Crisponi
Caro Gianfranco,
perdona il ruolo extradiegetico di voce fuori campo quale il mio intervento può apparire.
Intendo rispondere nuovamente al prof. Areddu, che forse ha ritenuto banale e/o ripetitivo rispondere al mio precedente commento.
La questione della lingua sarda necessita di un cambiamento epistemologico che tenga presente una realtà socio-politico-culturale profodamente mutata rispetto a qualche decennio fa. In questo senso, il ragionamento del prof. Areddu appare retrogrado e difficilmente contestualizzabile in area isolana attualmente, se non fosse che gli strenui oppositori all'applicazione delle numerose teorie di studio e diffusione de "sa limba", fanno parte di quella categoria di persone (siano essi studiosi o comuni cittadini)che pretende di scagliare critiche da una mano ed evita di fornire delucidazioni in merito a quanto si può e si deve fare dall'altra.
A mio avviso, al di là delle competenze tecniche sulle quali lavorare per elaborare uno standard (inteso nel senso del klossiano Ausbau (1986'87)= elaborazione, ovvero il grado di adeguatezza di una lingua in relazione a certe fasi della propria storia), bisogna evitare di cadere nel solito stereotipo secondo cui, come lei stesso ammette non ci sarebbe "[...] bisogno di comunicare in sardo negli uffici, perché forse solo qualche vecchio non capisce compiutamente l'italiano".
Questa considerazione la dice lunga sulla immagine che noi stessi abbiamo della nostra cultura, volente o nolente differente da quelle della penisola. E questa cultura, rappresentata e fagocitata dalla lingua, deve inevitabilmente emergere attraverso la salvaguardia del proprio patrimonio letterario, artistico ecc, imponendosi su quel folklore così diffuso che vede moltiplicarsi le sagre paesane e le rassegne enogastronomiche (per carità, legittime e rappresentative), ma rischia di ridurre la nostra isola in un itinerario per esperti culinari e appassionati di tradizioni popolari operando una sintesi che, come tutte le sintesi, non rende onore e merito alla Sardegna . E l'aspetto più tragico in tutto questo, a mio avviso, è l'autocompiacimento, il sentirsi soddisfatti della riuscita di un qualsivoglia evento solo tenendo presenti i numeri di visitatori e vendite.
La Sardegna ha bisogno di una risposta netta da parte dei propri abitanti, i soli che ne abbiano a cuore le sorti senza interessi esclusivamente lucrosi. In tutto questo la lingua ha un ruolo fondamentale in quanto può sollevare un dibattito serio (magari in sardo sarebbe meglio), che aiuti i sardi a concepire una immagine soggettiva della propria terra e del ruolo giocato dagli stessi al suo interno, in modo da evitare di ridurre la cultura a mero folklore e da richiamare un auditorio sempre maggiore a fare delle scelte nel senso della lingua.
Il "burosardese", dunque, non sarebbe altro se non un linguaggio settoriale, questa volta in sardo, proprio del dominio burocratico-amministrativo, necessario per limitare l'accezione semantica di alcuni lemmi, e renderne specifico il senso. Disponiamo già del "burocratese", "politichese", ed altri abberranti linguaggi esoterici che esistono e devono convivere necessariamente con quello che lei chiama "burosardese", al quale non può essere negato lo status di linguaggio di settore se non lo si fa con gli altri, certo più diffusi, linguaggi di alcuni domini del'italiano.
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