di Andrea Crisponi
Nonostante l'erudizione del discorso e la complessità sintattico-formale, nel ragionamento sviluppato dal dott. Areddu trapelano alcuni elementi riconducibili al più a luoghi comuni di stampo popolare. Da non addetto ai lavori - nuorese ma domiciliato per via di impegni accademici a Cagliari da diversi anni - sento in dovere di esprimermi in merito al suo intervento.
E' pratica ormai diffusa quella che prevede un confronto con altre realtà-europee e non, che si sono trovate innanzi ad una situazione sociolinguistica simile a quella che interessa direttamente noi sardi. Scontato è l'esempio della Catalogna che, per avvicendamenti storici e realtà contemporanea, di molto si distanzia rispetto al panorama isolano.
Vale la pena citare allora la lingua basca, l’Euskera, parlata su un territorio di non più 21.000 km quadrati a cavallo dei Pirenei (la popolazione totale è di 2.850.000 persone di cui 700.000 bascoparlanti circa). La situazione del basco è cambiata in seguito alla caduta di Franco nel 1976, anno in cui è stato riconosciuto status giuridico ad una varietà standard, l'Euskera Batua (Basco Unificato).
E' una varietà messa a punto in clandestinità già dal '68, basata su due dialetti baschi il Guizpucoano e il Laburdino. Si tratta di varietà unificata che è comportato la tutela del basco e che viene regolarmente insegnata nelle scuole, e negli ultimi tempi si va sempre più diffondendo.
Ora, premettendo che, da studente, non ho a disposizione il bagaglio di conoscenze utile a confutare del tutto le sue teorie, intendo però esprimere un punto di vista dal "basso" di una problematica che coinvolge tutti, e che dovrebbe essere discussa più nelle assemblee che nei palazzi.
La lotta contro l'individuazione di una varietà estendibile all'intera regione, a mio avviso, non fa che allontanare i parlanti sardo, nativi e non, dal sardo stesso, né permette di poterne salvaguardare a pieno titolo la sopravvivenza. Non si tratta di una questione di purezza, come ben tutti sanno, quanto di scelte che partono e si perdono direttamente nella politica, o di studi generalizzati che non rendono piena giustizia al panorama linguistico del territorio (mi riferisco in particolare alla "grande divisione" proposta dal prof. Blasco Ferrer che vedrebbe soltanto due grandi centri di irradiazione linguistica rappresentati dall'area campidanese e da quella logudorese).
Noto con particolare dispiacere che molti "appassionati" alla discussione, soprattutto nell'area cagliaritana, si dicono contrari ad una rappresentativa LSC, forse proprio per via di quelle ragioni cui lei stesso faceva riferimento ("Cagliari ha un bacino di utenza vasto che parla un dialetto non troppo dissimile, ha porto, aeroporto, TV, università, un'economia in ascesa, ha un discreto giornale locale"), le quali, non tengono conto di un'altra Sardegna che ha molte più problematiche rispetto a quelle presenti in area cagliaritana e dimostra un maggiore coinvolgimento nell'uso del sardo, senza volerne rivendicare la maggiore purezza o autorevolezza.
Non conosco i dati ma sono pronto a scommettere che in tutta l'area urbana di Cagliari sia riscontrabile solo una ridotta percentuale di parlanti effettivamente sardo, forse di molto inferiore a quella di parlanti in alcune aree dell'interno che hanno quotidianamente a che fare col sardo e che accetterebbero di buon grado di studiarlo nelle scuole, sia che si tratti di una varietà che padroneggiano, sia di altra varietà.
Bisogna poi tener presente che, in quanto lingua, il sardo in diastratia, diatopia ecc, da inevitabilmente vita a numerosi dialetti, quali resterebbero senza ombra di dubbio le varietà attualmente parlate in tutta l'isola.
Concludo sottolineando l'importanza rappresentata dalla scelta di una varietà standard o "tetto" di riferimento la quale richiamerebbe l'attenzione sulla questione dell'identità sarda, la quale a causa di molteplici vicissitudini, è sempre stata amorfa ed ha sfortunatamente risentito di un senso di inferiorità rispetto a quella profusa dal continente italiano.
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