“Un sistema d’istruzione pubblico appartiene sempre a un contesto culturale nazionale” ha scritto Ernesto Galli Della Loggia ieri sul Corriere della Sera. Per l’editorialista romano, nazionale, va da sé, equivale a statale, nella finzione che i due aggettivi e i relativi sostantivi siano, più che sinonimi, la stessa esatta cosa. Scrivendo della crisi in cui versa la scuola italiana, Galli Della Loggia scrive anche che “alla fine, nella sua sostanza più vera, la crisi della scuola italiana non è altro che la crisi dell’idea d’Italia”.
Come dargli torto? L’idea di Italia cui egli tiene, quella giacobina di “un popolo, una lingua, una nazione”, è in crisi da un bel po’ di tempo. Lui si lamenta, vorrebbe restaurare il passato; altri, io fra questi, ne prendono atto come di un processo che, salvo pericolosissimi atti di forza, ridisegna una Repubblica che, prima o poi, dovrà riconoscere la sua natura plurinazionale. Nessuno scandalo, naturalmente: esistono anche in Europa stati plurinazionali e nessuno ne fa un dramma.
Non è il caso ricordare qui come il Regno di Sardegna si annetté gli altri stati sovrani della Penisola, prima di trasformarsi in Regno d’Italia prima e Repubblica italiana successivamente. Forse, Galli Della Loggia sarebbe meno entusiasta nell’invocare la necessità di “riprendere il bandolo della nostra storia”, se nella scuola si insegnasse la storia vera, quella dei fatti, non quella retorica e falsa che descrive l’unificazione della Penisola come l’adesione “al regno costituzionale di Vittorio Emanuele decisa da milioni di cittadini con voto universale” (Ciampi, 2001). Basterebbe che a scuola si facessero conoscere voti, percentuali di votanti sugli aventi diritto e percentuali degli aventi diritto sui cittadini degli stati chiamati a plebiscito e la “idea di Italia” sarebbe diversa da quella che piace ai nazionalisti italiani.
La retorica ha funzionato, e funziona oggi negli inculturati nella scuola retorica, finché i popoli della Penisola non hanno riscoperto le proprie identità, regionali per alcuni, nazionali per altri. Identità che sono state a lungo conculcate, nel nome della identificazione fra stato e nazione, dai nazional-statalismi, italiano in Italia, francese in Francia, spagnolo in Spagna, etc. Identità che poco a poco riemergono, sia per la crisi degli apparati centralistici degli stati, sia per la voglia di federalismo, sia per la paura che la mondializzazione eclissi il locale, sia come reazione ad una omologazione che non regge alla diffusione della conoscenza.
La storia che ci hanno insegnato a scuola, dalle elementari all’università, non è mai stata tesa a far capire la complessità e la multiformità delle vicende politiche, culturali, linguistiche, sociali che si sono svolte nella Penisola, ma semplice a piegare complessità e multiformità a una unitarietà che esiste solo in una finzione funzionale. Reti, volsci, nuragici e tutti gli altri popoli che hanno abitato la penisola, in questa finzione sembra non aspettassero altro se non fare un giorno parte dell’Italia unita. E così la loro storia è storia “nazionale”, il che rende inutile (se non per gli studiosi e per i curiosi) l’insegnamento a scuola delle varie storie. Non dico in tutto lo Stato, ma neppure nei territori per secoli abitati da quei popoli.
Ci sono libri di storia adottati nella scuole sarde dove non si fa un solo accenno alla civiltà nuragica che, così, per centinaia di migliaia di ragazzi sardi neppure esiste, se non nel mito o nel racconto sentito fuori delle mura scolastiche. Quanto alla lingua sarda, la più antica parlata nella Repubblica, se non fosse per iniziativa di insegnanti volenterosi, nella scuola non esisterebbe. Fra le proposte che Galli Della Loggia avanza per la riconquista di una “idea d’Italia” c’è quella di ricentrare “con forza i nostri ordinamenti scolastici intorno a due capisaldi: da un lato la lingua italiana e la storia della sua letteratura, cioè intorno alla voce del nostro passato, e dall’altro le matematiche”.
Una reazione, nel senso proprio della spinta reazionaria, alle aperture che la crisi del centralismo “nazionale” ha costretto lo Stato a fare. Quasi che la crisi attuale (anche della scuola) non sia proprio la pervicacia con cui da 150 anni si insegue una “idea d’Italia” monolitica e negatrice delle differenze nazionali ed etniche. È proprio vero che chi è origine dei propri mali non può mettersi a piangere.
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