Il modo usato da alcuni giornalisti – non tutti per fortuna – per riferire quanto è capitato ad Orgosolo (l’assassinio di Peppino Marotto e dei fratelli Mattana) solleva inquietanti interrogativi. Il più grave dei quali è: “Si può, in nome della libertà di stampa, correre il rischio di trasformarsi in istigatori all’omicidio?”. E l’altro, non meno angosciante: “La spettacolarizzazione di una tragedia collettiva, alla ricerca di un colpo giornalistico, può spingersi fino a calpestare sentimenti e pietas?”
Non amo le tinte forti, ma qui tento di tradurre in domande la certezza con cui tanti orgolesi ieri hanno con me contestato le prevenute certezze di alcuni giornalisti che, in questi giorni, sono piombati su un paese in piena tragedia. Cerco di sistemare la questione.
Il giorno dopo l’assassinio di Peppino Marotto, alcuni giornalisti hanno trasformato in fatto quell’impasto di dubbi, di voci, di sussurri che sempre nelle piccole comunità segue a delitti, di sangue o anche di ordinaria criminalità. Cercando di capire che cosa sia successo, all’uscita dalla chiesa, nei tzilleri, nelle case, gli abitanti cercano di tirare le fila di qual che sanno, hanno sentito, hanno immaginato. È l’inizio della formazione di una opinione collettiva che, a volte e al termine di un lungo processo, dà un nome e un volto a chi ha commesso un crimine. Non ostante quel che pensano gli alieni i quali, nel giro di una rapida visita prima di tornare in redazione, credono di aver tutto capito, in questo processo sono immersi carabinieri, poliziotti e tutti quelli che hanno il mandato di indagare. Ed essi sanno perfettamente che cosa “la gente” pensa ad alta voce.
Dare per scontato che la comunità indichi con certezza, poche ore dopo il fatto, nomi, cognomi, fisionomie è una sciocchezza. Scriverlo, come è stato fatto, persino spronando sa zustìssia ad agire, ha il risultato non solo di indicare il o i colpevoli: prepara il clima adatto e precostituisce l’ambiente ideale perché altro sangue sia sparso. Poco conta che, in realtà, non sia stato fatto sui giornali il nome di chi “la voce popolare” indicava come l’assassino di Peppino Marotto. Lo conoscevano tutti e particolarmente chi ha saputo utilizzare la messa alla pubblica gogna, soprattutto mediatica, di un individuo, per regolare suoi conti con “l’assassino di Peppino Marotto”. E due vite umane sono state così stroncate. Cosa sia successo non lo sa nessuno, per ora. L’unica cosa certa è che il clima creato mediaticamente è stato utilizzato con diabolica abilità e che, senza questa esposizione pubblica di sussurri ancora silenziosi, forse un’altra famiglia orgolese non sarebbe costretta a piangere i fratelli Mattana.
E a piangerli quasi con vergogna, posto che, mediaticamente parlando, una delle tante ipotesi di indagine (quella che indica in uno dei fratelli Mattana l’assassino di Marotto) è verità quasi acclarata. Con la dignità e il contegno che distingue una famiglia orgolese, quella dei Mattana si è chiusa queste ore in casa, evitando persino di ricevere le condoglianze dei compaesani, la cui intima voglia di capire è finita sui giornali come atto di accusa contro due congiunti, poi assassinati.
E c’è un’altra domanda: la libertà di stampa non dovrebbe riguardare la libertà di raccontare i fatti e auto regolamentarsi, evitando che i fatti siano travolti da circostanze non provate, non verificate e frutto di voci anonime?
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