giovedì 5 aprile 2012

Quanto ci costi, lingua italiana


di Roberto Bolognesi (*)

Nei primi anni Novanta ero un neolaurato disoccupato e sono andato a lavorare come traduttore per una ditta informatica. Dovevo tradurre i manuali del software dall’inglese. Chi mi pagava? Voi che compravate il software.
Ho anche fatto il correttore di bozze per una rivista medica. Chi mi pagava? Voi, che, pagando le tasse, finanziate le industrie farmaceutiche che finanziavano la rivista medica.
In entrambi i casi sono stato, nel mio piccolo molto piccolo, un protagonista pagato del continuo processo di aggiornamento a cui una lingua viene sottoposta per tenere il passo con una realtà in continuo cambiamento.
Ad un certo punto–tanto per fare un esempio–mi son trovato davanti l’aggettivo “suicidale”: chiaramente un calco dall’inglese “suicidal”, che in italiano va tradotto come “suicida” (aggettivo). L’ho corretto, ma questa parola ha continuato ad emergere anche in altri articoli e a tornare nel testo che mi veniva sottoposto per la seconda volta.
Non so se questo neologismo sia stato accettato, almeno nel gergo tecnico della psichiatria. Indubbiamente “suicidale” ha dei vantaggi rispetto all’ambiguo “suicida”, che può  anche essere un sostantivo.
Io mi son trovato a decidere, in parte, sul destino di un eventuale neologismo dell’italiano.
A volte per una decisione del genere devi fermarti a riflettere per ore, ma mi pagavano bene e non mi lamentavo.
Provate ad immaginare come sarebbe la situazione economica dell’Italia, se –tanto per dire una data– la lingua italiana si fosse fermata agli anni ’70. Data anche la scarsa conoscenza dell’inglese, l’Italia sarebbe ferma alla “preistoria” preinformatica. Chi ha pagato l’aggiornamento dell’italiano? Voi.
L’altro giorno un amico indipendentista e amico della scrittrice italiana, ma indipendentista sarda (sic!), Michela Murgia, mi ha rimproverato perché, “incoerentemente”, avevo scritto un articolo semi-tecnico in italiano.
Gli ho risposto che io non ho mai sostenuto che bisogna scrivere esclusivamente in sardo, ma ho scelto l’argomento sbagliato.
Gli avrei dovuto rispondere chiedendogli se lui sarebbe disposto a pagare per leggere i miei articoli in sardo.
Non per gli articoli in sé, ma per il lavoro di aggiornamento del sardo che richiede la scrittura su argomenti di attualità o un minimo tecnici.
Comenti si narat in sardu? Non esistit su fueddu. E insaras comenti ddu podis nai?
E lo stile? Come si scrive in sardo? Come in italiano letterario? O dobbiamo sviluppare un nostro stile originale? Chiunque scriva in sardo sa di cosa sto parlando. Ci vuole tempo. Ci vuole fatica. E nessuno ti paga.
Anzi, se scrivi in sardo, il numero di visite al blog cala alla metà: ma chi nci carchint in su cunnu cussus letoris!
Scrivere in sardo significa aderire a un progetto di indipendenza culturale.
Chi scrive in sardo investe nella costruzione della nazione sarda: quella cosa che sarà definita soltanto dalle sue lingue e dalla sua cultura e che oggi esite soltanto in embrione.
Chi scrive in italiano, come me qui, fa un gioco ambiguo, ma inevitabile nella situazione attuale.
Non vi piace la mia ambiguità? Pagatemi e scriverò soltanto in sardo.
Ma chi scrive soltanto in italiano investe nel mantenimento dello statu quo.
Michela Murgia scrive soltanto in italiano perché scrivere in sardo le costerebbe tempo e fatica e nessuno la pagherebbe. Chi compra i suoi romanzi finanzia lei e l’italiano.

(*) dal suo blog

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