venerdì 14 settembre 2012

Il popolo che celebra le sconfitte

di Francu Pilloni

Esiste un popolo davvero strano sul nostro pianeta che celebra le vittorie altrui, ovverosia le proprie sconfitte. Si dice che viva circoscritto sul suo territorio da vari millenni, tutto compreso nel cercare di comprendere (scusate il gioco di parole) la propria angoscia esistenziale. Da come ho iniziato il mio discorso qualcuno arguirà che si tratta di un excursus storico vero e proprio, oppure di uno studio specialistico di antropologia, di quelli, per intenderci, in cui vene passata al microscopio ogni più piccola manifestazione quotidiana, comprese le eventuali rughe d’espressione della fronte che esprimono perplessità di fronte alla realtà, come pure la piega amara del disincanto riservata alla visione del futuro personale e collettivo. No, non è così: si tratta solamente del racconto di una realtà per altro non ignota, questa volta esaminata da un punto di vista estemporaneo, se non paradossale, come paradossale vi sarà sembrato il titolo di questa comunicazione. In parole povere, è come se guardassimo alla via che frequentiamo tutti i giorni non con i piedi sull’asfalto della strada, ma da sopra un campanile o, meglio ancora, come se vedessimo la città, il nostro quartiere o il paesello dall’alto, affacciati dal cesto di una mongolfiera così che i parametri più evidenti delle cose non sono più l’altezza delle stesse e i colori, ma la distanza e la relativa collocazione spaziale, poiché il colore dominante sarà quello dei tetti o dei prati.

Dico subito che è un vero e proprio miracolo se questo popolo non si è ancora estinto, poiché risultava improbo venire al mondo in un luogo dove è testimoniato dagli archeologi come il primogenito venisse ucciso dagli stessi genitori allo scopo di ingraziarsi il loro terribile dio. Le cose non dovrebbero essere mutate di molto, pur avendo quel popolo cambiato da tempo la sua religione, considerata l‘attuale natalità, una delle più basse del mondo.
 E non pare sia facile neppure crescervi e vivervi, poiché si hanno notizie certe di tanti abitanti, specialmente in giovane età, fuggiti via, rescindendo quel cordone ombelicale culturale che li contraddistingue comunque, ovunque trovino asilo politico e qualcosa da fare per cui essere retribuiti.
Allora, avrà già pensato qualcuno con una fuga in avanti rispetto alla mia esposizione, sarà facile, se non addirittura attraente morirvi. Purtroppo non era così tanto tempo fa, dato che si narra di come il figlio maggiore si caricasse sulle spalle il vecchio padre e lo precipitasse da un dirupo, non solo perché i vecchi conservavano il vizio di mangiare almeno un paio di volte al giorno e quivi non c’era molto da scialare, ma forse anche perché il vecchio era rimasto avvinto alle vecchie intemerate credenze che aveva trasmesso incorrotte ai propri discendenti. Siccome le tradizioni parlavano di un passato da leggenda di uomini forti e dominatori, mentre il presente appariva misero e inadeguato, davano la colpa ai padri per averli abituati a camminare con lo sguardo rivolto all’indietro, molto peggio dei granchi, che almeno si spostano di lato, tenendo d’occhio il davanti e il retro. Si dice pure che il figlio, col padre sulle spalle, ridesse forzosamente di un riso così atroce che è diventato proverbiale, in quanto era conscio di vivere in anteprima il proprio destino, se la sorte l’avesse beneficiato di una lunga vita. Non era facile morire neppure dopo che la pratica di quella feroce vendetta ai danni degli avi fu seppellita quando un tozzo di pane e uno spicchio di cipolla fu assicurato per tutto l’anno anche per il genitore inabile alla produzione. Ecco che per rendere più agevole la pratica, il trapasso veniva innescato non da un figlio, ma da una donna anziana che batteva un colpo sulla fronte, sulla nuca o sulla tempia del vecchio, secondo scienza,  coscienza e opportunità, colpo che avrebbe causato il rintocco della campana a morto, da lì a seguire in breve tempo.
Ora qualcuno avrà mentalmente collegato questa pratica all’istituzione popolare di s’accabbadora e il pensiero lo ha disturbato, sia che abbia supposto che qualche altro popolo abbia potuto rubarci l’idea della “maestra di pietà”, sia che abbia arguito che in fin dei conti si sta tutta l’ora parlando del popolo sardo.
Voglio rassicurare immediatamente tutti: nessuno ci ha rubato e neppure copiato l’idea di s’accabbadora, compresi i cinesi che pure non si fanno scrupolo e hanno materia prima in sovrabbondanza; il brevetto è stato depositato negli archivi della Storia, insieme a quello de su casu marzu. Non corriamo alcun pericolo in proposito.
Mi sia consentito dunque assentire perché sì, è tutta l’ora che parlo del nostro popolo. So che molti non sono d’accordo con me, ma ricordate che io vedo tutto da un punto di vista particolare, dall’alto o, se volete, dal basso, proprio terra terra, in un modo comunque che distorce  o annulla le prospettive consuete con cui siamo abituati a valutare la realtà.
Consideriamo innanzi tutto come questo nostro popolo abbia fatto del detto “l’erba del vicino è sempre più verde” la filosofia di riferimento. A iniziare dalla religione, naturalmente. Forse che non sappiamo che i nostri avi prendevano in considerazione un solo e unico dio, chiamato Babbai o anche Eli, o Iavè, proprio come gli Israeliti che dicono di sé essere il “popolo eletto”, mentre noi ci consideriamo un “popolo negato”? Così quando papa Gregorio Magno, nel 594 scrisse la sua epistula ad Hospitone denunciando il fatto che i suoi conterranei, come veri e propri animali, adoravano legni e pietre, cosa rispose il nostro? Non lo sappiamo. Certamente non stigmatizzò il fatto che i cosiddetti cristiani, non solamente avevano saccheggiato la religione di Iavè, ma si prostravano davanti a statue di legno e di pietra, anche se pregiata come il marmo di Carrara! Se non lo fece, sarà stato perché i sardi sapevano leggiucchiare, ma non avevano ancora appreso la scrittura?
Abbiamo avuto dei santi sardi in questi secoli di cristianesimo? Io so di sì, anche a prescindere da quelli di pura invenzione dovuti alla competizione per la supremazia fra i vescovi di Cagliari e di Sassari. Però continuiamo a lasciarli in disparte per far posto agli onori per i santi stranieri. E non dico neppure di quelli più antichi come Amadu,  Efis, Antiogu, ma parlo di quelli più recenti come Isidoro di Siviglia, che terrebbe a cuore le sorti dei contadini sardi, mentre so che ha difficoltà a tener dietro ai problemi dei contadini della sua terra. O un Vincenzo da Valencia che di cognome faceva  Ferrèr, in sardo conosciuto come Santu Bissenti ferreri, ferreri come fabbro e pertanto creduto amico dell’incudine e del martello, in verità patrono di chi picchiava sì, ma con la lingua, come i predicatori, e anche dei costruttori, pervenuto evidentemente in Sardegna fuori tempo massimo, visto le grandi costruzioni era ormai terminate da tempo. Per non parlare poi dei giorni nostri: non c’è praticamente un paese in Sardegna che non abbia dedicato una via o una piazza a Padre Pio da Pietralcina, confortandole con una statua in bronzo che ormai escono fatte in serie e si vendono a rate e a interessi zero.
Sia chiaro che non ho nulla contro Padre Pio e neppure nulla in comune, si badi bene, così come lui con me, del resto: mi sono certo più vicini, per stare ai francescani, sia Ignazio da Laconi, che Nicola da Gesturi, tanto per dire, ai quali riserviamo neppure un centesimo delle nostre devozioni. Chissà perché ciò avviene: forse perché i nostri hanno armeggiato al più con una bertula, mentre Pio dava impulso a Società per Azioni?
E se succede questo per i santi, figuriamoci per gli uomini e le donne comuni. Sono certo che in Sardegna ha più lettori Dan Brown che Grazia Deledda. Succede pure che qualcuno si stupisca perché a Dan Brown non abbiano ancora assegnato il Premio Nobel per la letteratura, visto che alla Deledda…
Se invece restiamo semplicemente alla storia e allarghiamo il nostro orizzonte, possiamo ricordare come il popolo francese, persa l’importante battaglia a Sedan nel 1870, abbia addirittura cancellato il numero settanta dalla sua lingua? Dopo il 69 per loro viene il sessanta dieci e poi il sessanta undici, il sessanta dodici e così via sino al sessanta diciannove, quindi arriva il quattro venti, il quattro venti e uno, … sino al quattro venti diciannove. Poi, finalmente cento! Hanno ancora orrore a pronunciare quella parola maledetta: settanta? Non sia mai!
E gli israeliti a cui fu distrutto per la seconda volta il Tempio di Gerusalemme quasi due millenni or sono, forse che fanno i loro pic-nic all’ombra dei brandelli di muro rimasti? Lo chiamano il “muro del pianto” e là si ammaestrano dondolandosi e battendosi il petto per il dolore e la disperazione.
Il popolo sardo, che ha da sempre ignorato profondamente la propria storia, appena ne ha saputo qualcosa di più ha messo in moto la macchina dei festeggiamenti popolari, usando spesso il pubblico denaro, per festeggiare due date in particolare: il 30 giugno e il 28 aprile.
La prima si riferisce al 30 giugno del 1409, il giorno che vide schierati l’uno contro l’altro, l’esercito catalano di conquista di Martino il Giovane e quello sardo del Giudicato di Arborea: nella battaglia campale  combattuta nei salti di Sanluri e Furtei, quel giorno morirono migliaia e migliaia di sardi, soprattutto ai piedi di una collina ancora oggi ricordata col nome di S’occidroxu. In ogni altro angolo del mondo si sarebbe pensato ad una giornata di lutto nazionale, anche in considerazione dei risvolti politici susseguenti all’evento, quale la perdita dell’indipendenza di tutto il nostro popolo, che durava da secoli sotto i Giudici. Invece da noi si è pensato ad una rievocazione storica, con tanto di costumi d’epoca. Insomma, una festa di popolo che si sta radicando nella tradizione come miglior cosa.
Ma l’apice risulta la festa nazionale del popolo sardo, indicata al 28 aprile, in ricordo dello stesso giorno del 1794 in cui ebbe inizio un breve periodo di insofferenza popolare, ricordato dagli storici moderni come il “Triennio rosso”. Capitò che, per un episodio del tutto banale e marginale, il popolino cagliaritano si accorse finalmente di essere servo dei piemontesi, subentrati agli spagnoli come dominatori dell’Isola, grazie agli effetti di una qualche spartizione di territori e di popoli, effettuata dai governanti europei.
Semplicemente la chiassata aumentò come gli uomini e le donne accorsi in Casteddu de susu dagli altri rioni e venne fuori la voce che non c’era giustizia per il popolo, che i piemontesi avevano gli impieghi migliori, mentre ai sardi non restava che fare i servi. Nacque anche la diceria che i piemontesi si andavano man mano arricchendo, spogliando quanto era rimasto dopo il trattamento riservatoci dagli spagnoli.
Quando uno sente dire Triennio rosso, porca miseria!, pensa subito al peggio, al colore del sangue che vien fatto scorrere per le strade, perché da che mondo è mondo, se non si ammazza qualcuno non si può dire di aver fatto una rivoluzione e tantomeno chiamarla rossa. Il popolo in verità si dimostrò assai vivace e vennero lanciati epiteti molto coloriti all’indirizzo degli odiati piemontesi, però fu anche clemente. Anzi, molto clemente! Per caso c’era un piroscafo ancorato nel porto, così gli insorti invitarono i piemontesi a far le valige in fretta e a tornare alle loro case in Continente. GO HOME, grideremo oggi, mentre quel giorno fu la parola cixiri a fare da discriminante fra sardi e non sardi. Si dice che, per affrettare la partenza, is piccioccus de crobi aiutassero gli stranieri a portare le loro valige al porto, bagagli dove avevano riposto quanto erano riusciti a rastrellare dei beni della città. Invece, non ostante il colore rosso del triennio, non ci fu una goccia di sangue versata tra Casteddu de susu e il porto, neanche a causa di qualche inciampo nel selciato delle strade, anche perché i partenti, pur frettolosi e spaventati, avevano tutti quanti delle calzature in buono stato. Gli scalzi, in verità, erano i cagliaritani. Niente sangue dunque, ma qualche lacrima sì, da parte delle serve, mischinas, rimaste senza padrone.
Si dirà che sto banalizzando il movimento che poi si espanse in tutta l’isola e che venne preso in mano da chi sapeva leggere, scrivere e soprattutto far di conto, il proprio tornaconto in verità, così che il malumore e il risentimento popolare diventò espressione del malessere diffuso nella casta, diremmo oggi, cioè degli Stamenti che rappresentavano i militari, i nobili e il clero. E ciascuna delle categorie sociali anzidette aveva ben ragione di mugugnare: il clero e gli ordini religiosi venivano espropriati dai Savoia dai benefici temporali accumulati nei secoli; i nobili si vedevano revocati i privilegi introdotti dagli spagnoli col feudalesimo. Da ciò si decise di porre un altolà alle riforme savoiarde sotto forma di 5 domande che furono preparate, approvate e portate all’attenzione del re di Torino da ambiziosi ambasciatori.
Capitò che il re (non mi sento neppure di farne il nome per non dargli troppa pubblicità) fece fare centocinquanta giorni di sala d’attesa prima di decidere se ricevere o no gli ambasciatori ufficiali di quell’isola, grazie al possesso della quale gli era concesso di fregiasi del titolo di re. Raccontano gli storici che sua altezza non li ammise al suo cospetto e le 5 preguntas sono ancora oggi inevase.
Se non considerate una sconfitta per il popolo sardo questi esiti, come può essere girata la frittata per essere chiamata vittoria, tanto importante da fissarvi la data della festa nazionale dei sardi?
Questo ci ricorda Sa dì de sa Sardigna, dai politici nostrani innalzata a valore simbolico tanto alto: ciascuno di noi, quale componente del popolo sardo, dovrebbe riconoscersi in uno di quei piccioccus de crobi che portarono i bagagli degli odiati piemontesi da Casteddu de susu sino al porto? Si sentono i nostri politici del Consiglio regionale rappresentati dagli Stamenti che cercarono di perpetuare i loro privilegi, ma non ricevettero udienza da chi di dovere? Forse che sì, forse che non…
Sarà che mi fa male la testa, sarà che mi fa male anche un ginocchio, ma io non ci sto.
La signora Annalisa Minetti, al ritorno dalle Paralimpiadi di Londra con la medaglia ancora appesa al collo, ha detto che nella sua vita non ha mai permesso che si calpestassero i suoi sogni.
Ma se il sogno attuale di un sardo medio è quello di farsi una scorpacciata dei biologici estivali fichidindia, chi lo salverà dal disinganno del giorno dopo? Sino a quando continueremo a celebrare le altrui vittorie, che sono di difficile digestione, saremo ancora e sempre un popolo stitico e depresso: un popolo a carru abbarrau,.



21 commenti:

  1. E poi mi parli di 'maestri'! Chi mai meglio di te ha ironizzato su quella gloriosa pagina cagliaritana della 'cacciata' piemontese? Una bregungia 'cussa dì' de sa Sardigna rivolutzionaria! Non dus scotzas is politicus! Sa dì 'nodia' dd'oint de aici: arrubiedda, po si spassiai, murrungendi e narendi frastimus. Sa solita revolutzioni sarda de s'assu 'e bastus e priogosa, fatta mancai lingendi padeddas e cichendi is impiegus a manca o a deretta! E ita podeus nai? A tali bisura de revolutzioni tali bisura de populu in su mundu!

    RispondiElimina
  2. Sono figlio di genitori entrambi sardi ma nato a Roma. Il post di Francu Pilloni mi ha fatto sobbalzare sulla sedia. È un po' che frequento questo blog incuriosito prima e appassionato poi dagli sviluppi sulla scrittura nuragica, interessato alla questione dell'indipendenza o quanto meno di una maggiore autonomia del Popolo Sardo. Il problema non sono i politici o i potenti di turno e non saranno, purtroppo, gli sforzi notevoli di poche persone appassionate a modificare la situazione che può essere modificata solo dal Popolo che acquisisca la coscienza di essere tale. Tutte le questioni, a cominciare dalla lingua, troveranno una soluzione positiva in quel fatidico momento tenendo presente che quella presa di coscienza è prima di tutto individuale.

    RispondiElimina
  3. Egregio Francu,
    risponderò, se me lo permetti, ricorrendo a concetti già espressi, con la certezza di sì, far storcere il naso a certuni, ma anche nella speranza che le ripetizioni siano necessarie per i duri di cuore.
    Già altre volte, proprio in questo luogo, ebbi teco (e con altri) a manifestare acredine verso i Sardi per loro proverbiale incapacità d’andare ben oltre il fondo nella ricerca delle proprie origini. Significando ciò, porre in essere la propria specifica capacità (qualunque essa sia, tieni conto che le mie frequentazioni umanistiche cessarono con il contatto scolastico delle “medie”, which means: nessuno si tiri indietro!) di sindacare tutto ciò che suona storto (e le occasioni sono innumeri) nella scoperta delle antiche isolane vicende, con la lettura delle pur misere occasioni che ci fornisce la ufficiale cultura. I “sardi” (permettimi quì l’iniziale minuscola del vocabolo da me ben altrimenti osannato) che manifestano allegria, invece d’operare una santa autofustigazione, per i fatti di Seddori e Casteddu da te ricordati, sono quegli individui in preda ad un desiderio d’autodistruzione che dura ormai da 2250 anni esatti (fakedi su contu). Essi, invece d’andare a scoprire come mai desiderino distruggersi, rimangono soggiogati da quell’amaro turbinio di nefasti pensieri che si rifanno al recente (in senso storico) passato, che ne condiziona tutta la vita (nei millenni), ponendoli nella condizione d’accettare d’essere definiti per “antonomasia” (cioè lasciandosi cambiare il nome in): incapaci, ignoranti, illetterati, colonizzati.
    Ma, bisognerebbe si chiedessero (e, chiediamocelo noi stessi), come mai operino ferocemente la propria fustigazione ogni qualvolta annichiliscono il proprio, (qualunque cosa sia) ed esaltino l’altrui, proveniente da ”overseas”. Paradossalmente, essi (noi, tutti, “sardi” e Sardi) dalla notte dei tempi, anche se son trascorsi solo 2250 anni, per una serie di velocissimi avvenimenti - a me ancora sconosciuti - che reputo avvenuti nell’arco degli ottanta anni che precedono quella data, si trovano nella condizione di non esser più capaci d’essere “i primi della classe”, così com’erano abituati per moltissime migliaia di anni. Per chiarire, è bene si ricordi come i Sardi (anzi i Sardiani - termine rubato al Pittau - come definisco la loro essenza precedentemente quella data) fossero, in ordine di tempo (per quanto ci è dato conoscere da reperti ufficiali) fra i primissimi imprenditori industriali e mercantili, che solevano dispiegare loro competenze navigando tutto il mare Mediterraneo; si rammentino solo la diffusione dell’ossidiana (che l’aiuto di ufficiali dati archeologici e il mio specifico approfondimento hanno permesso di datare almeno al XIII millennio da oggi) e la gigantesca intrapresa nella pesca del tonno, che tutta l’ecumene chiamò pesce di Sardegna, cioè “sardina”.
    -segue-

    RispondiElimina
  4. -segue-
    Ricordiamo altresì, come il loro continente fosse definito dai più disparati autori classici come, udite, udite (certo che lo sapete di già, ma lo ripeto perché sono certo che voi (come tutti) non vi abbiate poggiato sopra, pesantemente, la vostra attenzione speculativa, facendovela soggiornare un bel po’):
    - «isola eccellente sia per l’estensione sia per l’abbondante popolazione sia per i prodotti della terra» come asserisce Polibio in Storie, I,79,6
    - «felice e produttrice di tutto» come tramanda lo Pseudoaristotele in De Mirabilibus Auscultationibus, num. 100
    - «rinomata per l’abbondanza dei suoi frutti» come riporta Diodoro Siculo in Biblioteca Storica, IV,29,6
    - «grandissima e prima fra tutte per prosperità» come registra Pausania in Periegesi Elladica, 4,XXIII,5.
    Egregio Francu, credo che tu, io e i Sardi, ma soprattutto, tutti i “sardi”, sia bene ci soffermiamo e notiamo come, la Sardegna, ovvero quella sorta di irraggiungibile Eldorado per tutte le popolazioni del Mediterraneo dalla Ionia fino a Cartagine per il lasso di tempo che si riconduce dalla più remota antichità fino a ridosso della chiusura del III secolo a.C., fu proprio così definita:
    grandissima e prima fra tutte per prosperità
    E, proprio così ne fu fissata l’immagine nel ricordo universale, da tutta quella serie di autori (ciascuno dei quali riportava il meglio della tradizione conosciuta) di formazione affatto diversa, nonché inseriti in dissimili contesti culturali e temporali, attraverso il ricorso a una corposa serie di sì cospicui attributi, mai messi insieme per descrivere neanche una sola entità politica e statuale di tutto il bacino mediterraneo.
    Ebbene, caro Francu, appena si manifesta ai suoi occhi un manufatto di qualsivolglia natura, una qualunque espressione dell’intelletto, l’io più intimo del “sardo” d’oggidì così stigmatizza il suo vedere: in illo tempore queste imbecillità le facevo io molto meglio!
    Ma, invece di operare in una qualche maniera, per dimostrare la veridicità di quanto percepisce, forse perché conscio di dover combattere una guerra esageratamente dispendiosa, si autopunisce beandosi dello “stupido nuovo” arrivato da fuori. Meglio e, certo più dannoso alla interiore esperienza del sardo, fare festa, per una sconfitta militare che ebbe a mortificare il suo destino terreno o, per la meschina figura casteddaia, che la sua “depressione” non è stata in grado di rimuovere, come ammirevolmente (solo da un punto di vista psicologico, ma è proprio ciò di cui qui si discetta) fecero oltr’Alpe, per il “settanta”, come tu argutamente osservavi.
    Grazie, mikkelj.

    RispondiElimina
  5. 1)-"Figumorisca apu papau e su carru s'est frimau". Frimadia pagu pagu tui puru, Francu, stenta ca ndi chistionaus. E non m'arrespundas cumenti iat fatu tziu Peppinu de Pudhedhu a cosa de amigus chi, biendidhu passendu, dh'iant nau: "Peppinu stenta" - e issu dhis iat torrau" - "Stentari non potzu/ ca seu andendu a domu de Ghisti Dotzu/ po mi misurari sa istimenta./ Aiseru pullenta/ oi fa'/ crasi? Ba'!?"

    Bai e cica ita iat essiri sutzediu chi si nci iant bogau in totu e fiaus andaus in disterru cumenti a is Giudeus. "Ocannu chi benit, a Gerusalemi!", iat essiri diventau diciu po nosus puru? e invecias de Gerusalemi, ita si ndi at essi bessiu de buca, Castedhu o Tatari? Figus o Sindia?

    Sa chistioni, perou, non podiat andari de aici: cumenti iant ari fatu is "Barones", scurixedhus, a pratica'i sa "tirannia" sentza de vassallus? E prus e prus, chini sind'iat essi spicigau a nosatrus de icustas arrocas fragelladas de donni astru malu? Beru puru ca cancunu si ndi spicigat po amarolla e po apretu ma dh'abarrat in coru un'ispetzia mala e non si bi' s'ora de ndi torrari.

    Sa cosa curiosa est ca seus cunvintus chi totus siant contras a nosu e chi totu su malu si ndi bengiat de foras. Is politicus puru, esti ca ponint a menti a is terramannesus, de chi no... Perou si creeus puru chi totu su bonu si ndi siat beniu de foras e tandu, ammarolla, tocat a pentzari ca non seus bonus a nudha.

    Ma dhu at un'atra cosa ancora curiosa meda: totus anca dha tenint cun nosu e nosu seus puru contras a nosu' etotu, imbidiosus e gellosus che canis s'unu cun s'atru. S'eus bèndiu fintzas su discrutzu, si mai nd'eus tentu, a chin totu nd'est beniu de foras, tanti po non patiri acòrdiu fra nosus e nosus.

    Una borta anca non fiaus aici e depit essiri berus, candechino' non iaus ari fatu is meravillias chi eus fatu in s'antigoriu. Oburu tenint arrexoni is chi nanta chi dhas apant fatas atrus istrangius, passa passa in Sardinnia. Ma, a su chi pentzu, nuraxis e cositedhas aici, de pagu contu, dhas iant fatas i Sardus; ita si nd'at pèrdiu s'arratza?

    Pagora apu biu in telavisioni totu is afatias chi funti faendu po sarvai su Mari Mortu, po mori ca est sichendusia. Deu gei dhu sciu puita funti faendudidhu: po su dinari, po bendiri donnia arratza de cosa a is iscemus chi "abocant".

    Nosu puru mi parit ca seus "sichendusia", po agatari unu Sardu tocat a dhu cicari a lantioni.
    No' dh'eus agatari unu de icussus "creativus" chi si ponit in conca de ndi bogari una "campagna" po sarvari su Sardu? Non sa lìngua, ca mi parit chi dh'apant giai campanada, su Sardu cumenti de "specie in via di estinzione".

    RispondiElimina
  6. Jai che nd’as achipiu, ne hai messo insieme di cose, nel tuo interessantissimo scritto! E dopo che ci hai esposti al pubblico ludibrio, mettendo a nudo le nostre vergogne, di noi sardi dico, te compreso, ora ti correrà l’obbligo, spero, di prepararne un altro di scritto, altrettanto brillante, chiaro e convincente, con cui prenderai le nostre difese e spiegherai perché, pur essendo stati comunque sempre balentes, benchè spesso perdenti, e pur conservando tuttora quel carattere forte e combattivo che tutti ci riconoscono, abbiamo nel contempo quelle debolezze che tu hai evidenziato, e che non fanno presagire niente di buono per il nostro futuro, come sardi.
    Certamente le colpe sono imputabili anche ai sardi in generale -Ricordi? Persino le famiglie del Nuorese non parlano più in sardo ai bambini: dispettosi!-, ma ci saranno pure dei responsabili maggiori, di sarda specie o meno.
    A che pro tuttavia individuare i responsabili, se già non fossero chiari? Forse conviene provare a individuare qualche via d’uscita, concreta, che muova dalla piccola realtà locale, e che sempre più coinvolga, e possa mettere insieme gruppi e individui di buona volontà, con l’idea di un “FORZA PARIS” che vada a toccare i centri nevralgici del nostro destino, la Regione Sarda.

    RispondiElimina
  7. Grazie agli amici che hanno preso in considerazione i miei "tormenti": so che io sono come loro e loro come me, perché quel che diciamo e facciamo è frutto di "troppo amore.
    A Giampodda di Roma dico che sveglia più un secchio d'acqua in faccia che una ninnananna. Se hai sobbalzato sulla sedia, ho raggiunto il mio scopo, almeno con te.
    A Michele Podda invece dico che sono dispiaciuto, ma non sono in campagna elettorale. Ho pregato Matteo Renzi di lasciar perdere le primarie del Pd e riservare il suo piglio per conquistare il posto di governatore della Sardegna. Il fatto che sia forestiero, e toscano in particolare, non c'impermalisce più di tanto, considerata la lunga assuefazione. In ogni caso, un fiorentino farà sempre meglio dei Pisani che, per prima cosa, distrussero la capitale del regno di Cagliari, S. Igia, non risparmiando neppure la basilica. Con quei massi lavorati ci costruirono i palazzi e le torri di Castello, la cittadella dei Pisani, dove ancora fanno bella mostra di sé.

    RispondiElimina
  8. Signor Francu,lei sa la stima che ho per lei,mi auguro vivamente che stia scherzando quando dice che vorrebbe Matteo Renzi in Sardegna!La prego mi dica che scherza.Matteo è un pallone gonfiato che ha fatto disastri in provincia e ora ce lo troviamo come sindaco.Noi lo chiamiamo il berlusconino.Come si fa a farsi incantare da un giovane disonesto? Le sue parole non mi incantano per niente.Il problema dei sardi non lo può risolvere un continentale.I sardi sono tutto e l'incontrario di tutto.Amo i sardi per la loro forza di carattere,dignità ect.ma non sono mai riuscita a capire e,ormai,mai lo capirò, perchè non sanno difendere le loro bellezze,la loro storia.Mi permetta di ripetermi raccontando un fatto grave,gravissimo.A Nuoro c'erano le vecchie casette che ho sempre chiamato"scatole di fiammiferi,piccole piccole(la porta minuscola,due finestre laterali),facevano parte della nostra storia.Sono state distrutte per costriure case civili? Da vecchia memoria GFP si è sempre battutto perchè ciò non accadesse.E' stato ascoltato? Ovviamente no.Chi mette gli incompetenti al posto di comando? I sardi.Il male voluto non è mai troppo.In toscana si ricostruiscono i vecchi casolari rispettando la loro storia.Nonostante ciò io preferisco alla grande i sardi.Non so quali sonole ragioni storiche del nostro potere autodistruttivo ma possiamo migliorare.

    RispondiElimina

  9. Voglio precisare, caro Franco, che non era mia intenzione pubblicizzare un partito (Psdaz) ma un’idea (il SARDISMO) che alberga certamente nell’animo di quasi tutti i sardi. Del resto sai bene che il FORZA PARIS di lussiana memoria ha anticipato almeno di qualche anno la nascita stessa di quel partito. Il bisogno dell’unità fra sardi è evidente e se non si perviene alla composizione delle tante energie disperse, il miglior futuro dovrà ancora aspettare.

    Non capisco la tua particolare attenzione per Renzi, certo dalla faccia pulita e i toni umili, disposto dice a mettersi al servizio del popolo. Ma non è sardo, e qui a ben guardare qualche faccia altrettanto pulita potremmo anche trovarla.

    Mi è venuta in mente, a questo proposito, la prima ottava della CUMMEDIA MUNDANA di Salvatore Poddighe:

    De Dante su poeta de Toscana
    sa Divina Cummedia legimus
    e noi sardos prite non faghimus
    un'atera Cummedia mundana?
    Pro dare lughe a sa zente isolana
    sos chi s'estru poeticu tenimus
    pro chi non bastat sa Divina sola
    a sa Sardigna nostra a dare iscola.

    Se possiamo fare a meno di Dante... Preferirei inoltre puntare come dicevo su vari gruppi e individui volenterosi e capaci, piuttosto che su un leader. FORZA PARIS, dunque.

    RispondiElimina
  10. Caro Francu
    spero che la tua sia solo una provocazione per risvegliare le coscienze. Vedo che gran parte dei commenti, gente che ha speso una vita per tenere a galla i nostri ideali, la pensa come te sul fatto di denigrare quel poco di positivo di questi ultimi secol, e questo fa parte di quel fenomeno di "autodistruzione" che citiamo spesso.
    Se mi dai l'indirizzo ti spedisco un paio di lenzuola per piangere ...
    In ogni caso complimenti per la qualità dell'articolo.
    Con tanto rispetto
    Giuseppe Mura

    RispondiElimina
  11. Segnalo al pessimismo - certo non immotivato - di Franco Pilloni, la nascita di una coalizione di movimenti di ispirazione sovranista. E' una segnalazione fatta con molte speranze e qualche perplessità, la più importante delle quali è l'aggettivo "rivoluzionaria" che qualifica la "Consulta" la quale unisce Sardigna nazione, Irs, il Movimento pastori e quello degli artigiani e la Base che fa capo all'ex Pd Arbau.
    Un processo di unità è pur sempre un elemento positivo che, spero, darà alla lunga torto alla visione cupa di Francu.

    RispondiElimina
  12. O Francu, abortas su prantu dhu pìgaus po arrisu e s'arrisu po prantu. Epuru, cussa spetzie de arrisixeddu a lavras serrada dh'anti nomenau "sardonicu". E dhu pigaus po prantu. Boxis, tzerrius, movitias e iscritas a mann'a mannu, dhus pigaus po rivoluzioni e sa genti est feti ptrangendi.

    RispondiElimina
  13. @ zuannefrantziscu
    Fiat ora! Bi mancat su PSd'Az. pro essere binchente.

    RispondiElimina
  14. penso che sia comunque ora di lasciare gli abiti altrui e rimetterci i nostri....comunque è sempre un inizio di unione popolare, o vogliamo ancora stare in questo perenne status quo? o nella totale staticità in cui vogliono che stiamo...

    RispondiElimina
  15. Gentile signora Grazia, caro Michele Podda,
    davvero davvero (per dirla come Gigi Sanna!) credete che sia innamorato di Renzi?
    Mi piacerebbe invece che ci fosse un sardo alla ribalta col piglio di Renzi.
    Chi segue questo blog da tanto, sa che ho auspicato che il leader del movimento dei pastori si mettesse a capo di una vera "rivoluzione " sarda; ricorda anche quanto ho scritto per la "Repubblica de Maluentu" che si pone, per molti di noi, come un "sogno" alla Minetti; ricorda di quanto scrissi dell'appuntamento a Monti Prama, dove accorremmo in gran numero di tre (pochi ma buoni) e piantammo la bandiera dei mori in pizzus de su cuccuru.
    Chi mi conosce, sa che (purtroppo) so ridere di me stesso e, in conseguenza, anche degli altri sardi e che spesso il mio è un riso shardanico (per dirla come M. T. Porcu).
    Quanto ai toscani, signora Grazia, quanto ho ricordato dei Pisani credo sia sufficiente.
    Non ho mai ammirato la famosa Torre pisana di Cagliari anche per il fatto che non riesco a togliermi dalla mente come tutte quelle pietre ben lavorate provengono dalla cattedrale e dagli altri edifici di Sant'Igia, la capitale del Giudicato di Kallari, distrutta dai Pisani a tradimento nel 1258. Dico a tradimento perché avevano dato assicurazione all'arcivescovo (pisano pure lui) che l'avrebbero risparmiata. Per noi dovrebbe essere la Torre del Pianto, come per gli Israeliti il muro di Gerusalemme.
    In questo modo ho dato soddisfazione anche a Elio e a Giuseppe.
    Quanto alle parole di GFP, o Zuanne, seus imbeccendi ma biveus attaccaus a s'abettu de biri "la terra promessa" almeno da lontano.
    Per adesso non vediamo ancora nulla, se non la nebbia delle proposte o non-proposte della nostra politica. E dico nostra, perché è la politica sarda e tutto quello che è sardo è cosa nostra.
    Grazie.

    RispondiElimina
  16. ah, dimenticavo!
    Caro Giuseppe, come vedi dalla foto non ho un naso importante (alla toscana) e non mi servono le lenzuola per le lacrime e per soffiarmi.
    Da bambino quale sono rimasto, mi piace farle scorrere sulle guance e sentire sulle labbra quanto sono salate, le mie lacrime.
    Per non dire dell'amaro che lasciano in bocca.
    Ma ora, riconosco, stiamo esagerando. Il che è un modo per ridere di noi stessi, in quella maniera lì.

    RispondiElimina
  17. Signor Francu,ora la riconosco e ne sono felice.Vede,avere il piglio non basta,Renzi ne ha da vendere ma mi creda,insieme al piglio ci vogliono gli ideali e non la sete di potere come ha questo presuontosino che governa Firenze.Grazie,grazie della sua risposta,che,mi auguravo fosse com'è stata.Commo ando a mi corcare comente una bezzedda prena de felighidade.

    RispondiElimina
  18. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  19. Mi è capitato recentemente di leggere, in un blog autorevole, un articolo nel quale si asseriva che il Nobel assegnato alla Deledda sarebbe stato “largamente immeritato”. Esprimere un giudizio di gusto sulle opere della nostra scrittrice più grande è naturalmente legittimo ma negarle il merito del prestigioso riconoscimento è solo un clichè, una posa snob di cui molti Sardi si vestono, nell'affanno del voler distinguere il loro essere Sardi da un essere Sardi secondario, popolare, da sciatti faciloni: “Ma come? Ti piace la Deledda!? Scrittrice sopravalutata...”.
    Il festeggiare le nostre sconfitte è un caso particolare del nostro generale disconoscere tutto ciò di cui, volendo, potremmo fare motivo di vanto. La realtà è che noi Sardi non siamo capaci di moti d'orgoglio, non perché questi non siano nelle nostre corde ma perché abbiamo timore delle loro conseguenze: rischierebbero di marcare troppo vivido la nostra identità che, evidentemente, tutta intera è difficile da sostenere. Così, figli inconsapevoli di un “popolo negato”, ci perdiamo tra distinguo intellettuali dal volto rassicurante ma che non sono altro che pugnalate auto-inflitte nella speranza che i pregiudizi altrui nei nostri confronti, saziati dal sangue del nostro sacrificio, ci risparmino e passino oltre. Viviamo come lacerati tra il tentativo di apparire tra i Sardi più Sardi e, nello stesso tempo, tra i Sardi meno Sardi.

    RispondiElimina
  20. Signor Murru,il suo intervento è molto bello ed esaustivo su come siamo noi sardi.Non poteva esprimerlo meglio di così.

    RispondiElimina
  21. Celebarere le sconfitte non è una caratteristica solo nostra. La Serbia, che in quanto ad autostima... beh, lasciamo stare, celebra la battaglia di Kosova Polje del 1389. Lì, la Serbia decretò la propria fine soccombendo ai turchi.
    La Catalogna, alla quale non è sconosciuta l'autostima, ha dedicato la sua festa nazionale la "Dida nacional" dell'11 settembre alla caduta di Barcellona nelle mani dei borboni di Filippo V di Spagna e alla fine delle sue ististuzioni autonome. L'ultima "Dida" sono scesi in piazza due milioni di catalani per chiedere l'indipendenza.

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.