di Roberto Bolognesi (*)
Nei primi anni Novanta ero un
neolaurato disoccupato e sono andato a lavorare come traduttore per
una ditta informatica. Dovevo tradurre i manuali del software
dall’inglese. Chi mi pagava? Voi che compravate il software.
Ho anche fatto il correttore di bozze
per una rivista medica. Chi mi pagava? Voi, che, pagando le
tasse, finanziate le industrie farmaceutiche che finanziavano la
rivista medica.
In entrambi i casi sono stato, nel mio
piccolo molto piccolo, un protagonista pagato del continuo processo
di aggiornamento a cui una lingua viene sottoposta per tenere il
passo con una realtà in continuo cambiamento.
Ad un certo punto–tanto per fare un
esempio–mi son trovato davanti l’aggettivo “suicidale”:
chiaramente un calco dall’inglese “suicidal”, che in italiano
va tradotto come “suicida” (aggettivo). L’ho corretto, ma
questa parola ha continuato ad emergere anche in altri articoli e a
tornare nel testo che mi veniva sottoposto per la seconda volta.
Non so se questo neologismo sia stato
accettato, almeno nel gergo tecnico della psichiatria. Indubbiamente
“suicidale” ha dei vantaggi rispetto all’ambiguo “suicida”,
che può anche essere un sostantivo.
Io mi son trovato a decidere, in parte,
sul destino di un eventuale neologismo dell’italiano.
A volte per una decisione del genere
devi fermarti a riflettere per ore, ma mi pagavano bene e non mi
lamentavo.
Provate ad immaginare come sarebbe la
situazione economica dell’Italia, se –tanto per dire una data– la
lingua italiana si fosse fermata agli anni ’70. Data anche la scarsa conoscenza
dell’inglese, l’Italia sarebbe ferma alla “preistoria”
preinformatica. Chi ha pagato l’aggiornamento
dell’italiano? Voi.
L’altro giorno un amico
indipendentista e amico della scrittrice italiana, ma indipendentista
sarda (sic!), Michela Murgia, mi ha rimproverato perché,
“incoerentemente”, avevo scritto un articolo semi-tecnico in
italiano.
Gli ho risposto che io non ho mai
sostenuto che bisogna scrivere esclusivamente in sardo, ma ho scelto
l’argomento sbagliato.
Gli avrei dovuto rispondere
chiedendogli se lui sarebbe disposto a pagare per leggere i miei
articoli in sardo.
Non per gli articoli in sé, ma per il
lavoro di aggiornamento del sardo che richiede la scrittura su
argomenti di attualità o un minimo tecnici.
Comenti si narat in sardu? Non esistit
su fueddu. E insaras comenti ddu podis nai?
E lo stile? Come si scrive in sardo?
Come in italiano letterario? O dobbiamo sviluppare un nostro stile
originale? Chiunque scriva in sardo sa di cosa sto
parlando. Ci vuole tempo. Ci vuole fatica. E nessuno ti paga.
Anzi, se scrivi in sardo, il numero di
visite al blog cala alla metà: ma chi nci carchint in su cunnu
cussus letoris!
Scrivere in sardo significa aderire a
un progetto di indipendenza culturale.
Chi scrive in sardo investe nella
costruzione della nazione sarda: quella cosa che sarà definita
soltanto dalle sue lingue e dalla sua cultura e che oggi esite
soltanto in embrione.
Chi scrive in italiano, come me qui, fa
un gioco ambiguo, ma inevitabile nella situazione attuale.
Non vi piace la mia ambiguità?
Pagatemi e scriverò soltanto in sardo.
Ma chi scrive soltanto in italiano
investe nel mantenimento dello statu quo.
Michela Murgia scrive soltanto in
italiano perché scrivere in sardo le costerebbe tempo e fatica e
nessuno la pagherebbe. Chi compra i suoi romanzi finanzia lei
e l’italiano.
(*) dal suo blog
E pro cussu ki no dda liggiu.....
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