Nel momento in cui l’attenzione clamorosa dei media ha cambiato bersaglio, trovo il coraggio di aggiungere un modesto parere personale su un piccolo grande uomo.
di Franco Pilloni
Erano i
tempi deprimenti di un carnevale di guerra. In poche fortunate famiglie si
friggeva con lo strutto o con l’olio d’oliva, in altre case ci si arrangiava
con l’olio chiaro di lentisco, la gran parte degli uomini e delle donne si contentavano
dell’odore che tracimava da porte e finestre chiuse o dai tetti di tegole
sistemate a secco su un letto di canne. Per tenersi su col morale, questi
ultimi s’inventavano frittelle rosolate e fumanti su cui spargere un velo di
zucchero; il meglio stava nell’indovinare l’olio di frittura e il predominante
aroma di bucce d’arancia asciugate per tempo al fumo del caminetto e tritate
finemente. In un giorno di quelli, in un viottolo del quartiere del porto, più
noto dal soprannome del bottegaio all’angolo che dal nome del personaggio
storico a cui è ufficialmente dedicato, stante un’aria già mite e senza vento,
con l’atmosfera intrisa di odori e di lezzi, in una stanzetta posta sotto il
tetto di fianco a una finestrella da cui si vedevano il cielo che a volte
tremava e le tegole stanche, venne alla luce una creaturina che aveva gli occhi
da gufo, la fronte da gufo, il naso adunco come il becco d’un gufo, la bocca
inespressiva e le orecchie che tiravano su come i ciuffi delle penne di un
gufo: era nato un bambino-gufo. Ne parlò l’ostetrica per prima, inorridita non
tanto dai tratti del viso quanto dalla peluria insistente su tutto il
corpicino, ma si contenne sul particolare; ne parlarono le donne; ne parlò
chiunque lo vide perché in tanti si recarono a fargli visita, con la scusa di un
dono, in danaro o in natura andava bene comunque, visto che la madre era una
giovanissima, povera e senza famiglia accertata. A fine serata, nelle osterie
del porto volarono contese di stornelli riferiti alla creatura che in attesa di
un nome vero fu indicato come Gufo-bambino.
Un
giocoliere di circo che, avendo fratturato entrambi i polsi nella caduta
rovinosa il giorno in cui finì sotto la bestia che cavalcava, si era ritirato a
vita privata e aveva sfruttato la conoscenza andata con una signora che faceva
il mestiere e con la quale convolò a giuste e clamorose nozze e che, anche per
questo, godeva fama di uomo di mondo, proclamò di prevedere per Gufo-bambino
una splendida carriera nello spettacolo. Mai veggente fu più tempestivo e
rigoroso di lui, ma tutto questo mutò in certezza da lì a qualche anno, quando
il bambino fu cresciuto, diventato un ragazzino con la solita faccia da gufo,
il naso adunco e la bocca che rimase inespressiva.
Da
quando aveva cominciato a sgambettare e a reggersi a quattro zampe per muoversi
dentro il rifugio, alzava e abbassava la testina ritmicamente o la girava di
lato non senza una certa grazia. Quando fu capace di stare dritto sulle fragili
gambette, gli stessi movimenti apparivano molto più coerenti con l’espressione
degli occhi ben spalancati, tondi e ben disegnati, con le sopracciglia folte
che partivano disinserendosi dalla radice del naso, a porre in rilievo ancora
meglio ciò che tutti assomigliavano ad un becco. Gufo-bambino, in vari momenti
della giornata, restava da solo nella sua gabbia sotto il tetto, la madre
chiudeva la porta da fuori e a lui non restava che ammirare lo spettacolo delle
tegole posate in teorie regolari, necessitate da impellenze che gli sfuggivano.
La curiosità e l’ impertinenza erano nel suo bagaglio genetico, sopravanzò ben
presto l’ostacolo della finestrella e vagò sui tetti ad incontrare pochi gatti
e un vecchio gufo. Quando se lo vide dinanzi, il vecchio gufo mormorò un
glu-glu da prendere come un “ecco un rompiscatole”, senza infierire nel
giudizio in attesa di eventi. Fletté due volte le gambe, preparandosi a un volo
di ritirata. Ma quel coso che aveva di fronte non gli parve un pericolo
imminente. Invece si sbagliò, non perché corresse dei rischi per la sua vita,
ma ne sarebbe uscita stravolta la sua stessa esistenza. Gufo-bambino gli si
parò di fronte spalancando gli occhi, al solito. Il vecchio gufo spalancò i
suoi di occhi perché mai aveva visto un suo simile così grosso e, per di più,
senza penne. Pensò ad una stirpe cugina, ad un gufo di foresta pluviale, infine
ad un soggetto alieno o ad una metamorfosi di gufo nipponico per irradiamento
da plutonio. Il vecchio orecchiava i comunicati della radio attraverso il
fumaiolo ed era sempre ben informato. Prese l’iniziativa e lo squadrò
violentemente di sbieco, 45° a sinistra dalla verticale, cambiò inclinazione al
suo capo, 45° a destra, fece finta di girare la testa di 360°, con un
trucchetto che aveva imparato da piccolo. Gufo-bambino prese a scimmiottare i
suoi movimenti, si bloccò solamente al giro completo, fermandosi ai 240° appena
e così ristette, come fermato da un torcicollo. Fu il primo incontro e la prima
lezione di un’educazione durata anni: per Gufo-bambino fu come apprendere
un’altra lingua, un diverso uso del corpo e della voce, che sfociava
inesorabilmente in un basilare linguaggio universale. Il carattere più
vistosamente assunto fu il vizio di “mettere gli occhi a fanale sugli altri”,
come lo rimproverava la mamma di continuo. Ebbe però coscienza piena di se
stesso una settimana prima che la mamma lo lasciasse definitivamente da solo.
È
abbastanza noto che a fronte dell’evento di una nascita, c’è stato per certo un
preludio di svariati mesi innanzi: era giugno, la ragazzina pensò di scavalcare
l’ultimo giorno di scuola con una sortita in periferia, neanche tanto lontano,
ma vicino alla chiesa campestre di santa Gioconda, vicino alla quale, e confinante col suo cortile, c’era il
giardino di Donna Chiara Suadente, con le ciliegie che pendevano rosse dagli
alberi, proprio dietro il muro di cinta. Aveva abbandonato i quaderni, infilati
dietro lo sportello dell’edicola, sino all’una nessuno li avrebbe trovati. Ora
più signorina che studentessa, entrò nella corte della chiesa per vedere se
qualche compagno o compagna di classe l’avesse preceduta. Invece no. Decise di
esplorare il giardino di Donna Chiara Suadente con uno sguardo panoramico da sopra
il muro di cinta divisorio. Vide i ciliegi, vide gli albicocchi, vide tutto
quello che c’era da vedere, compresi i gelsi che le fecero pensare ad alberi di
rovo senza spine, visto che fruttificavano more. Vide prevalentemente un grosso uccello
appollaiato sull’albero delle ciliegie che le faceva cenno col dito di
ammutolirsi e con la mano di avvicinarsi. Molto perplessa, stava decidendo su
cosa fare quando scivolò rovinosamente dall’alto del muro verso l’interno del
giardino. Gettò un urlo, rimbalzò sul terreno, stava per gridare ancora quando
la mano di quell’uccello le tappò la bocca e le intimò con l’indice dell’altra
mano di stare zitta, altrimenti sarebbero stati scoperti dal terribile
guardiano. Lui le palpò i piedi, poi le caviglie, gli stinchi che erano magri,
le ginocchia che erano grosse e chiedeva continuamente “ti fa male qui? Ti fa
male qui? E qui?”, le facevano male soprattutto le natiche, ma non aveva
intenzione di rivelarglielo, perché non aveva intenzione di tirarsi su il
vestito o di farsi palpeggiare in certe parti. Invece il vestito era già
sollevato, lei si guardava le gambe là dove lui stava guardandola, ma non le
fece effetto alcuno. Effetto di paura, s’intende, o di ansia. Avrebbe dovuto
provare repulsione per quel ragazzo che pareva un uccello, che la guardava con
occhi tondi come i fanali di una locomotiva, che piegava la testa ora a destra,
ora a sinistra, e poi continuava a muovere il busto come se seguisse il ritmo
di una musica nascosta. Incrociarono gli sguardi quando lui le si sedette
vicino, così d’accanto che sentiva il caldo del suo corpo, della sua mano che
le accarezzava i capelli sciolti a cominciare dalla nuca. Si potrebbe
continuare, ma si sa cosa avvenne, come andarono a finire le carezze e gli
sguardi, se poi ne venne implementata una creatura. Forse era mezzogiorno o
forse neppure le undici, fatto sta che si sentì il grugnito inferocito del
fattore che correva verso di loro. Se li voleva spaventare, la cosa gli riuscì
appieno. Scattarono in piedi come cavallette e cercarono scampo oltre il muro
di cinta che però era alto. Lui la prese di peso, si fece poggiare i piedi
sulle spalle, la spinse finché non riuscì a saltare oltre, mettendosi in salvo.
Aveva perso una scarpa, ma se la vide recapitare per via aerea. Mentre la
raggiungeva, il rumore di una schioppettata frustò l’aria e ruppe il silenzio. Come
il rumore svanì, di là del muro, nessun segno di vita, né pianti, né lamenti, né
rumore di lotta, né di corsa furibonda. Solo silenzio. La ragazza fuggì via
dalla campagna con i pensieri che le affastellavano la mente.
Non
seppe mai cosa fosse successo veramente in quell’angolo del giardino di Donna
Chiara Suadente, quella mattina di giugno. Ciò non le impedì di colorire la
vicenda ad uso e consumo del suo Gufo-bambino: lei aveva quindici anni,
incontrò un bellissimo forestiero che odorava di mare, abile a farsi capire
seppure in una lingua strana, si amarono in mezzo ad un bel prato, ma poi ci fu
uno sparo che privò Gufo-bambino del suo legittimo padre. La madre tacque e Gufo-bambino
impallidì, nascose dentro il suo cuore quella storia che sentiva profondamente
sua e disse: “L’ho conosciuto sul tetto”. La madre assentì senza capire. E non
sarebbe stata l’unica.
Nella
sua vita d’artista preconizzato ha raccontato se stesso, la sua storia, la sua
procreazione con una canzone che lui intitolò “Gufo-bambino” ma che la censura
e l’opera protezione animali censurarono. Si arrese e cambiò il titolo in una
data di nascita, la sua. Parlò delle sue scorribande nella piazza più grande
che poteva esistere, una piazza lastricate di tegole, frequentata da gatti
randagi e da altri gufi come lui. Scrisse anche una lettera al suo migliore
amico che lo aveva lasciato un giorno inaspettato; si prese in giro con un
altro refrain in cui cantava un simpatico “Attenti al Gufo” che però fu
censurato dalla casa discografica sempre per via della paura degli animalisti.
E quando lui propose un “Attenti all’UFO”, ci si mise di mezzo la Questura,
proibendo la cosa per gli effetti collaterali sulla gente facilmente
suggestionabile. Andò via con un “Attenti al lupo”, ma tutti hanno capito che i
movimenti della testa, del corpo, degli occhi non sono riferibili al canide,
bensì al re alato della notte.
È un
vero peccato che sia andato via uno che ci ha divertito senza che capissimo
cosa voleva dirci, che si divertiva a sua volta squadrandoci bene in faccia,
ben cosciente di quanto ci siamo reputati in sintonia con lui, mentre i nostri
pensieri, come quelli della mamma, erano ancora di là del muro del giardino dei
ciliegi di Donna Chiara Suadente.
Signor Francu,grazie per questa favola meravigliosa,piena di poesia, di dolcezza e di umanità.Visto che lei è così bravo, cerchi di allietarci più spesso.Ogni tanto uscire dalla realtà fa bene allo spirito.
RispondiEliminabellissima.
RispondiEliminaSì bellissima, fantastica per concezione. Ma non è solo 'qui' che la dovrebbero leggere. Mi auguro che la apprezzino in molti, in moltissimi. Tu sei un grande scrittore e un grande poeta, ma questa volta, caro Franco, hai fatto una 'gara' da vero cantautore surrealista, con chi se ne è andato. Cantautore raffinatissimo. Ma mi chiedo: che cosa sono spesso scrittori come te se non sono autori che cantano?
RispondiEliminaSpero che la 'storia' non sfugga ad un autore sensibilissimo che Aba, come sai, ama moltissimo.
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RispondiEliminacomplimenti per il bel racconto, tenero ed avvincente
RispondiEliminaBella, molto bella, Franco. Era un gran "Gufo" di spettacolo Ha messo in musica la vita senza mai perderne il senso del Sacro.
RispondiEliminaGrazie, siete troppo buoni con me. Tu Gigi in particolare.
RispondiEliminaIn effetti volevo una cosa più breve, ma non mi è riuscita. Ma se siete arrivati sino in fondo, va bene lo stesso.
da Mikkelj Tzoroddu
RispondiEliminaSi avverte il profumo della musica alla quale son sospese le parole.
Ma, qui non si vedono affatto parole: esse, composte con lirica maestria, sono armoniosa espressione che si distende al nostro pensiero e lo trasporta nel tradurre sensazioni in piaceri e struggimenti che producono il distacco dal reale, di cui v’ha bisogno per rifuggire il bruto quotidiano nel ricreare il più alto Spirto.