di Francesco Casula
C’è da augurarsi che l’orgia patriottarda e la retorica italiota siano state consegnate definitivamente al 2011 ormai trascorso e che si possa finalmente ragionare dell’Unità d’Italia serenamente. Ma anche criticamente. Senza che ciò comporti l’accusa di bossismo. O peggio, come capitò all’inizio degli anni ’70, ad alcuni intellettuali neomeridionalisti – fra cui Nicola Zitara, Anton Carlo e Carlo Capecelatro – che furono tacciati dall’Unità, allora organo del PCI, di essere filoborboni e reazionari. Avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento e dello Stato unitario. Cui invece essi attribuivano il colonialismo interno e il sottosviluppo del Meridione.
Insieme alla critica occorrerà ristabilire, con un minimo di decenza storica, alcuni fatti: l’Unità si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della penisola e fu realizzata dalla Casa savoia, dai suoi ministri – da Cavour in primis – e dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud, il blocco storico gramsciano, contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord, contro gli interessi del popolo, segnatamente di quello contadino e del Sud, contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a vantaggio dell’industria.
Scrive a questo proposito, nel suo capolavoro “Paese d’Ombre” lo scrittore di Villacidro Giuseppe Dessì: “Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo”. E l’Italia era “divisa come prima e più di prima, giacché l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati”. E conclude: ”L’unità vera, quella per la quale tanti uomini si erano sacrificati, si sarebbe potuta ottenere soltanto con una federazione degli stati italiani”. Altro che persistere con l’ubriacatura unitarista: con buona pace di Napolitano, questa ancora oggi è la soluzione!
Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 9-1-2012
Hai fatto bene, Francesco, a citare quel passo di Dessì. Non credo che in molti lo conoscano. I giovani poi, leggono così poco! E fai bene, ancora, quando parli di 'indecenza storica'. Questa indecenza o vergogna perenne, mito' dopo 'mito', esiste da quando è nata la storiografia che ha interessato, in un modo o nell'altro, la Sardegna.
RispondiEliminaMe ne sto accorgendo sempre di più dai documenti antichissimi che andiamo scoprendo. Purtroppo, il più delle volte, nella ricerca e nei pronunciamenti su di essa siamo stati rappresentati da dei veri cialtroni. Sardi o non sardi che siano.
Nel catastrofico anno appena trascorso, di celebrazioni centocinquantenarie, di scandali e di tragedie piccole e grandi, ho ascoltato più volte la sintesi storica oggetto della celebrazione, raccontata da noti personaggi del mondo televisivo.
RispondiEliminaSi è parlato tanto del giovane "stato piemontese" embrione d'italia.
Ne deduco che nella coscienza collettiva degli italiani non è mai esistito un "Regno di Sardegna e, è un'impressione, neanche in quella di molti nostri conterranei.