Su matzolu di Luras |
Di recente è stato messo in dubbio che sia mai esistita in Sardegna l’usanza dell’accabbadura, ossia della “buona morte” od “eutanasia”, praticata dalle accabbadoras (ma anche dagli accabbadores) (due cc e due bb !) su individui in lunga e dolorosa agonia. Chi ha sollevato questo dubbio evidentemente non ha letto l’articolo di Maria Giuseppa Cabiddu, pubblicato nei «Quaderni Bolotanesi» del 1989, num. 15, pagg. 343-368. Si tratta di uno studio molto accurato, circostanziato di fatti, di testimonianze e di bibliografia, il quale non lascia spazio a ragionevoli dubbi intorno al fenomeno studiato ed esposto dalla ricercatrice. Costei presenta anche una lunga testimonianza fàttale da un suo concittadino di Orune, nato nel 1910, testimonianza che praticamente riportava indietro i fatti narrati soltanto di qualche decennio.
D’altronde nel mio libro Lingua e civiltà di Sardegna (II, Cagliari 2004, Edizioni della Torre, pag. 20) ho scritto testualmente: «dal mensile di Cagliari “Il Messaggero Sardo”, del febbraio 2004, sono venuto a conoscenza di un fatto quasi incredibile: un anziano emigrato ha scritto di avere il ricordo chiaro di due casi di eutanasia, effettuata da accabbadoras a Cuglieri, dopo la I guerra mondiale, nei primi anni Venti... In paese se ne parlava in modo molto sommesso e riservato...».
Ancora più recente è la testimonianza riportata da Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, nel loro libretto Eutanasia ante litteram in Sardegna (Cagliari 2003, pagg. 86-87), i quali, dopo aver seguito passo passo lo studio della Cabiddu, riferiscono due episodi di accabbadura, uno avvenuto a Luras nel 1929 e l’altro avvenuto ad Orgosolo addirittura nel 1952...
Infine segnalo che è comparso di recente il libro di Dolores Turchi, Ho visto agire s’accabbadora – la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabbadora (con dvd allegato) (Oliena 2008, ediz. IRIS).
D’altra parte ritengo opportuno presentare una notazione propriamente linguistica, che ha una sua importanza: se in tutta la Sardegna centrale fino a mezzo secolo fa erano conosciuti e adoperati i vocaboli accabbadore, accabbadora «accoppatore,-trice» e accabbadura «finitura, accoppamento» (da accabbare, aggabbare «finire, terminare, smettere, esaurire, accoppare, uccidere», a sua volta dallo spagn. acabar), significa che essi facevano preciso riferimento, non a leggende inventate, ma a fatti reali e concreti.
Anche lo studioso gallurese Franco Fresi, in alcuni suoi scritti e interventi, ha riportato la testimonianza di casi di accabbadura avvenuti in epoca recente in Gallura e provocati pure col colpo di un martello tutto di legno dato sul cervelletto oppure su una delle tempie del malcapitato, martello chiamato matzolu «mazzuolo», di cui tuttora esiste un esemplare nel «Museo Etnografico» di Luras. Eccone, in alto, la fotografia.
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Chiarissimo Professore,
RispondiEliminasull’AC(C)ABBADORA, d’accordo con lei sulle due bi, qualche perplessità sulla doppia ci (mi perdoni per l’invasione di campo). In merito al fenomeno, non posso evitare di rimanere perplesso ogni volta che mi viene fatto di pensarci; questa volta su Sua sollecitazione. Leggevo il libro da Lei citato, “Eutanasia ante litteram in Sardegna” e ho avuto l’impressione che non mi dicesse molto di più di quanto conoscessi e l’ ho lasciato a decantare, lo riprenderò subito.
L’osservatorio privilegiato del Professor Bucarelli prometteva rivelazioni corpose, che so? “un’autopsia da me effettuata” o “eseguita dal dottor tal dei tali, rivelava indubitabili segni del colpo di ‘massolu’ sulla tempia o sulla nuca o sul cuore della ‘vittima’.”
So perfettamente che sarebbe chiedere troppo. Il Prof. Bucarelli è del 44, avrà cominciato a esercitare alla fine degli anni sessanta, quando ormai ‘s’acabbadora’ si aggirava nei racconti che gli studiosi cominciavano a raccogliere fra la gente. Non si possono pretendere da lui esperienze dirette. Pensavo piuttosto ad esperienze di suoi colleghi del passato che, però, continuano a mancare.
Di quel famoso processo di Tempio, sulla ‘acabbadora’ di Luras, finito in un non luogo a procedere, c’è traccia agli atti? Eravamo nel 29, qualcosa sarà pur rimasto. E del fatto di Orgosolo, più vicino a noi, c’è solo, difficile che fosse diversamente, la testimonianza, costantemente, indiretta?
“Sa meiga”compiva in segreto e solitudine la sua opera, faceva allontanare tutti. Nessuno ha mai visto niente. Se di un ‘processo’ si tratta, è un processo esclusivamente indiziario. Tutto rimane avvolto in un’aura di misterica magia, da cui star lontani senza l’iniziazione opportuna. Era un atto sacro e al sacro non è da tutti sapersi e potersi avvicinare. Perché ostinarsi a dare al sacro un avallo tecnico-scientifico e magari giuridico? Non abbiamo bisogno, fa parte del nostro mondo e non lo rinneghiamo.
difficile da accettare che le MEJGAS e Majarjas sarde, esperte nell'uso delle erbe come nessun altro, non usassero appunto delle ERBE per una DOLCE MORTE. Che bisogno avevano di usare unu MATZUKKU? Che roba barbara e crudele! la CICCUTTA di socratica memoria non è assente in Sardinia, e manco la mandragola o altre erbe che danno la DOLCE MORTE. Nessuno mi porterà mai a credere che delle persone esperte nell'uso delle ERBE medicinali (e mortali) oltre che allucinogene, ricorressero a uno strumento tanto rozzo e inadatto ad "aiutare" a mortire in modo decoroso i poveri malati. SU MATZUKKU di decoroso non ha proprio niente. tanto valeva strangolare il povero malcapitato.
RispondiEliminaEh! Le favole son dure a morire. fino a dieci anni fa si diceva (e si credeva) che i SARDI NON NAVIGASSERO. A forza di dirlo ... e di scriverlo...
Kum Salude
Dubito che le erbe potessero servire allo scopo. Benchè non sia esperto della materia ritengo che la cicuta, la mandragora etc etc non fossero adatte allo scopo. Intanto perchè non uccidono sul colpo ma dopo un periodo più o meno lungo di atroci termenti; poi perchè la dose da somministrare va adattata all'individuo ed esistono persone più o meno resistenti; poi perché non é detto che siano facilmente somministrabili ad in individuo in agonia; poi perchè la preparazione della pozione richiede tempo, utensili vari e, soprattutto, lascia numerose tracce. Trovo più plausibile SU MAZZUCCU che, come dice il prof. Pittau, é risolutivo. Basta un colpo ben assestato. Del resto, se la leggenda del sacrificio degli anziani ha un findamento, anche lì, bastava una spinta.
RispondiEliminaLe majarzas usavano le erbe a scopo curativo, non per uccidere. magari, qualche volta, ci cascava pure il morto, ma solo perché non avevano saputo usare la dose giusta o sottovalutato le scarse capacità di resistenza della vittima. Basta che l'individuo abbia il fegato scassato e ci lascia la pelle anche con una dose terapeutica. Bisognerebbe sentire il paree di un medico in prpoposito.
RispondiEliminanon vorremmo credere alla stopriella RACCONTATA(al solito) dagli scrittori romani sui sardi che uccidevano i propri padri a SETTANT'ANNI?!
RispondiEliminaQuesta è una dlle solite fandonie raccontate dai Romani per screditare i nemici, quando sapevano bene che a PRATICARLA ERANO LORO questa usanza: uccidendo i padri a... SESSANTA ANNI 60!
Può darsi che tu abbia ragione, ma in Sardegna esistono molte leggende in merito a questa usanza. Del resto, il fatto che la praticassero i Romani, non significa che non la praticassero anche altri. Gli Eschimesi per esempio... Diciamo che a quei tempi, forse la praticavano un pò tutti
RispondiEliminaNon pare che gli Etruschi abbiano lasciato testimonianza di eleimnazione di anziani. Lo facevano forse in tempi antichi i Latini, che poi ritualizzarono tale antico evento, con la gettata dei fantocci argei dal ponte Sublicio. Quel che non convince nel rituale supposto sardo è che fosse delegata una donna l'accabbadora. ci saran voluti sei o sette colpi per ammazzare un uomo robusto, col martello, con l'ascia o era affilata bene oppure almeno tre colpi prima che la testa partisse. Più conveniente e meno compromettente per la boia spingerli o buttarli giù da rupi, cosa che pare esser realmente avvenuta. Ho timore che dietro ci sia solo un antifemminismo di parata: la donna era la strega indi anche l'eliminatrice di persone. IN qualche caso forse sorto da casi isolati di donne che avevano eliminato il marito. Considerata la condizione femminile, l'eliminazione ad opera di una donna- se mai realistica- doveva avere un che di spregio nei confronti dell'ucciso. Peraltro la iustitia a la lex sono sempre rappresentate femminilmente.
RispondiEliminaMi attrae molto la figura de s'acabbadora (una sola c anche noi in Marmilla, una c debole molto incline a trasformarsi in g, dolce anch'essa) come longa manus de dio che dà la vita e la toglie, quando arriva il momento che lui ha deciso. Fosse pure un dio femmina come il martello-bidente andrebbe ad indicare.
RispondiEliminaL'attrezzo usato è indiscutibilmente un martello (marteddu o mazzolu) ricavato secondo connotu da un ramo d'olivastro.
Ricordo che ne scrisse su Paraulas l'ozierese Tonino Langiu, con un sobrio articolo, corredato anche da foto, fra cui quella dei bei muri in granito del museo di Luras.
Faccio osservare sommessamente che, secondo connotu, a volte l'attrezzo non veniva neppure usato perché bastava posare sul viso del morente un semplice cuscino di lana. Questo a dimostrazione del rispetto che si aveva per il morente in quanto s'acabbadora sentiva il suo intervento come una missione altamente umanitaria.
Chi pensa a spargimenti di sangue e a scene truculente, sbaglia: significa che non ha compreso molto dell'animo dei sardi.
Così come sbaglia chi pensa ad avvelenamenti vari che sono considerati da sempre atti infidi e sleali, sintomo di vigliaccata bella e buona.
E, sempre a mio sommesso parere, è scorretto chiamare l’attrezzo de s’acabbadora mazzuccu, che indica un bastone corto per sorreggersi nel camminare, quasi sinonimo di bacculu che è unu mazzuccu col manico ricurvo. Il bastone, sempre preferibilmente di olivastro, con una bella “testa”, tipico dei pastori d’una volta (oggi vanno per la maggiore i fuoristrada), si chiama mazzocca. Famosa quella di Curcuris che, riempita di chiodi a testa rotonda e zigrinata come si usava per le scarpe ferrate (acciolus), respinsero l’incursione dei mori saraceni, giusto nel periodo in cui fu distrutto il paese di Bonorcili, di cui resta nella memoria sa canzoni di Anna Zonca, il pianto in rima di quell’unica sopravvissuta, rifugiatasi a Mogoro. Di quella notte in cui is mazzoccas vinsero sulle scimitarre, resta un detto nei paesi fra Monte Arci e la Giara: Deus s’indi campit de sa mazzocca cruccuresa!
Mi accorgo di aver scantonato, ma mi premeva sottolineare come sa mazzocca sia certamente strumento che apporta la morte, ma escluderei che si possa confondere con l’eutanasia.
da Massimo Pittau
RispondiEliminaRispondo brevemente alle osservazioni che mi hanno fatto alcuni lettori.
1) Non sono stati scrittori romani ad aver segnalato l’esistenza del geronticidio o “uccisione dei vecchi” presso i Nuragici, bensì sono stati più di venti autori greci, sia pure alcuni copiandosi a vicenda.
Il geronticidio era abbastanza comune in epoca antica: lo praticavano gli antichi Cantabrici, progenitori degli odierni Baschi, i Sarmati-Sciti e lo praticavano fino a circa 80 anni fa gli Eschimesi, lasciando morire di assideramento i vecchi richiusi negli iglò, come io ricordo di aver visto da adolescente in un documentario cinematografico. Lo praticavano pure i Romani dei tempi più antichi sui vecchi sessantenni buttandoli dal ponte Sublicio nel Tevere; e si badi bene: già i sessantenni e non i settantenni come in Sardegna!
A questo proposito ritengo interessante far osservare che per gli Etruschi il secolo durava “settant’anni” e anche per essi la durata normale della vita dell’uomo era di 70 anni, credenza che tramandata di generazione in generazione è arrivata fino al toscano Dante, come si deduce dal primo verso della sua «Divina Commedia», Nel mezzo del cammin di nostra vita, con cui il poeta indica la data del suo viaggio immaginario nell’oltretomba, avvenuto a 35 anni, cioè a metà dei 70.
Si tenga però presente che gli episodi di geronticidio saranno stati molto rari, dato che in epoca antica erano pochissimi gli uomini che raggiungevano l’età dei 70 anni.
Inoltre la dolorosa operazione si svolgeva in un clima di religiosità, dato che i vecchi venivano consacrati al dio Kronos/Saturno, religiosità che attenuava molto sia il dolore dei figli che la effettuavano, sia la paura dei vecchi che la subivano.
In ogni modo invito a non confondere il geronticidio con la eutanasia.
2) Atropo era una divinità secondaria femminile, non maschile, sia in Grecia che in Etruria.
L’ascia bipenne (non bidente!) era conosciuta da moltissimi popoli antichi e anche dagli Etruschi, tanto è vero che essa entrava nell’etrusco «fascio littorio», ma essa era differente dal “martello”. Per parlare della bipenne occorrerebbe un libro intero e quando si parla di un singolo argomento non è metodologicamente corretto allargare troppo il discorso.
A questo proposito segnalo che, dopo uno scambio di idee con Marco Rendeli, etruscologo dell’Università di Sassari, sono arrivato alla conclusione che l’oggetto afferrato dai demoni etruschi non è propriamente un “grosso martello, ma è una “mazza”. la quale faceva pure riferimento alla “morte”, dato che serviva per ammazzare i bovini e soprattutto quelli sacrificati agli dèi («ammazzare» deriva appunto da a + mazza). Però egli mi ha suggerito anche che l’oggetto serviva ai demoni per aprire ai defunti un varco verso ì’aldilà. Ed io accetto anche questa soluzione, in virtù del fatto che spesso gli antichi davano più significati a un medesimo simbolo (polisemia).
3) Nei tempi antichi la figura della sacerdotessa era più frequente di quella dei sacerdoti. Nella Sardegna agro-pastorale le maghiarjas erano molto più numerose dei maghiarjos; e di quelle antiche sarde conosciamo perfino il nome, Bitiae, che corrisponde chiaramente al greco Pithiai «Pizie, Pitonesse».
Ovviamente erano donne anche le levatrici e ad esse spettava di decidere se i neonati erano lòmpidos «compiuti» oppure no. In questo secondo caso ne decretavano la soppressione, come dicono numerose antiche storie sarde e perfino due toponimi della Barbagia. Ischerveddapitzinnos e Isqerveddatheraqos. Pertanto era la donna quella che decretava sia la “nascita” di un individuo sia la sua “soppressione”.
Di tutto questo ho parlato in una mia comunicazione fatta nell’VIII Convegno di studio “L’Africa Romana” e intitolata «Geronticidio, eutanasia e infanticidio nella Sardegna antica», inserita poi nella mia opera «Ulisse e Nautica in Sardegna» (1994).
Ci sarebbe da aggiungere che nelle lingue ie. la parola "vecchio" (es. gheras) si lega etimologicamente a quella indicante "grano" (es. granum). Non potremmo escludere che certi riti agrari, fossero condizionati originariamente dalla sepoltura sui campi coltivati delle ossa o delle ceneri degli antenati, a mo' di macabra inseminazione. In Australia, come noto, gli Aborigeni, che non hanno conosciuto il neolitico, si nutrivano delle carni stesse degli avi deceduti, evitando quindi il ritorno alla terra.
RispondiEliminaS'acabadora fit un'umbra chi si moiat a s'iscuru, in secretu. No la bidian in cara mancu sas chi la chircaian.Cun Juale, matzuccu o capidale de crinu fit sa pupa de sa morte ona. Oe, custa pantuma de femina in luttu non s'afaìanat prus in mesu a nois che in s'anticoriu rechente, fortzis ca s'est ispozada e s'est bestida de biancu, in s'ospidale... Jeo so cumbintu chi siat esistida, ma nemos est obrigadu a bi crere, gai comente nemos est obrigadu a crere in sas divinidades.... E s'Acabadora est su simbulu de cantu, frequante, sos anticos fin prus sapios de nois. A nemos s'auguraìat de morrer a belias in su lettu de sa sufrentzia e si capitaiat aian acatadu su mediu. Oe chi semus modernos, no nde ridimus de s'Acabadora, ma no ischimus it'est sa piedade.
RispondiEliminaNemos est obrigadu a bi crere, ma issas sun su sinnu chi sos anticos fin prus sapios de nois ca no lassaian morrer a nemos, a belias, in d'unu lettu e tribulia.Oe semu modernos,ma fortzis amus perdidu sa virtude de sa piedade. Faeddamus de "s'eutanasia", comente chi siasmus iscoperinde s'America. In Sardigna l'aian zae iscoperta e chena discussiones infadosas, cun sas Acabadoras an acatadu su mediu. E b'est chie si nde ridet. Passentzia. Issas esistin galu. Si ch'an moidu su estire de luttu e si nd'an bestidu unu biancu. In sos ospidales...
RispondiElimina@ larentup@gmail.com
RispondiEliminaBalla kalliu, Larentu. L'as pròpiu intzichida giusta. Sa modernidade nos at zutu cosas bonas ma las simus pagandhe a caru.
da Massimo Pittau
RispondiElimina@ Atropa Belladonna
Gentile Dottoressa,
la connessione tra labrys «ascia bipenne» e "labirinto", pur essendo frequente, a me sembra errata, come ritengo di aver dimostrato in un mio articolo comparso di recente nella rivista fiorentina «Il Governo delle Idee», che Le mando in visione.
STORIA DEL VOCABOLO LABIRINTO
Il vocabolo greco labýrhinthos «labirinto» risulta fino al presente di origine ignota. Alcuni etimologisti lo hanno definito “egeo”, altri “preellenico”, altri “preindoeuropeo”, altri “mediterraneo”, altri infine “di origine ignota”.
A mio giudizio il vocabolo è di origine egeo-anatolica e precisamente deriva dal (pre)greco lebērhís,-ídos «coniglio» (greco di Marsiglia), il quale è chiaramente lo stesso vocabolo che léporhis «lepre» (Eolide e Sicilia) e lat. lepus,-oris «lepre» (GEW, DELG, DELL).
Lo sviluppo semantico fra l’idea di “labirinto” e quella di “coniglio” si chiarisce bene col fatto che questo animale si scava una tana a forma di “cunicolo”, cioè di “labirinto”. Questo sviluppo semantico trova un esatto riscontro nel vocabolo lat. cuniculus, il quale significava ugualmente «cunicolo» e «coniglio».
L’origine egeo-anatolica dei vocaboli greci lebērhís,-ídos «coniglio» e léporhis «lepre» e pure di quello lat. lepus,-oris è confermata da vocaboli di due popoli che erano imparentati fra loro e che proprio da quell’area geografica, e precisamente dalla Lidia, traevano la loro comune origine, gli Etruschi d’Italia e i Sardiani o Protosardi della Sardegna (OPSE, StSN).
Nel lessico etrusco conservatoci figura un gentilizio (femminile e al genitivo) Leprnal (DETR 256), che corrisponde chiaramente al cognomen lat. Leporinus (RNG 351). Inoltre il suffisso del (pre)greco labýrhinthos trova esatto riscontro nel vocabolo etrusco Aminth «Amore, Cupido, Eros» (DETR 43).
Nella odierna lingua sarda esiste un relitto prelatino e quindi “sardiano” o “protosardo”, lèppore, lèppere, lèpporo, lèp(p)uri, lèppiri «lepre», il quale per consistenti difficoltà fonetiche [vocali differenti e continuata conservazione della esplosiva sorda –p(p)-] non può derivare dal latino (DES; DILS) e il quale del resto trova riscontro nei seguenti toponimi, pur’essi “sardiani” o “protosardi”: Leperiò (2 siti differenti, Orgosolo), Leporeni (Orgosolo), Leporetè (Torpè), Leporitè (Siniscola), Lepporithái (Mamoiada, Nùoro), Tilèppere (2 siti differenti: Mara e Pozzomaggiore) (LISNE 216; OPSE 197; LISPR)], tutti caratterizzati da fatti fonetici e formativi di sicura matrice sardiana o protosarda.
Come ultima notazione segnalo che sempre all’area geografica egeo-anatolica ci riporta il nome della città di Lábranda, nella Caria, in Asia Minore (Erodoto, Strabone), il quale mostra abbastanza chiaramente di essere corradicale con l’appellativo labyrhinthos.
[Nota bene: l’esplicazione delle sigle bibliografiche si può trovare nell’opera di M. Pittau, Dizionario della Lingua Etrusca (DETR), Sassari 2005 (Libreria Koinè)].
@ Prof. Pittau
RispondiEliminaMi domando se "Labrys" non possa avere una qualche relazione con "Labaru", anche se l'uscita in u farebbe pensare ad un termine di origine latina. Al mio paese si usa in senso ironico per definire una persona poco raccomandabile: cussu sì chi est unu bellu labaru.
La lepre veramente non fa cunicoli, li fa il coniglio, da noi non stanziale. Se leberis (d'origine ignota) è alla base di labyrinthos, se ne trarrà che indicasse coniglio originariamente. Per labyrinthos ho fornito una chiave illirica in OACS. Su cuniculus v. lo studio del Ballester http://www.continuitas.org/textsauthor.html , secondo cui è un gallicismo d'area iberica, da un cun-ik 'piccolo cane'.
RispondiElimina@ illiricheddu
RispondiEliminaIlliriche’, si vede che non sei cacciatore, altrimenti non avresti usato l’aggettivazione “non stanziale” per il coniglio che, quindi, dovrebbe essere un migratore. Va bene che pare proprio sia “migrato” e chi s’è visto, s’è visto. Chiaramente intendevi dire “non autoctono”; sarebbe ‘ arrivato’ in tempi recenti. Se si potesse avere qualche dato più preciso sulla data d’arrivo, potremmo mettere nell’imbarazzo il Professor Pittau sulla etimologia di labirinto, lepuri e cunillu.
La stragrande maggioranza dell'attuale fauna sarda é immigrata, tra cui il coniglio, la lepre, la pernice, il muflone etc. Prova ne sia che di questi animali in Sardegna non esistono i relativi fossili. La caratteristica é che tutte queste immigrazioni sono avvenute nella notte dei tempi e lasciano noi moderni nell'incertezza circa il loro arrivo. Quando precisamente sono avvenute queste immigrazioni? La cosa é importante perché questi animali, in epoca storica, possono essere arrivati solo al seguito degli uomini, migranti a loro volta. Prendiamo ad esempio la lepre. Tutti sanno che la lepre sarda non é quella europea (Lepus aeropeus)ma quella africana (Lepus capensis) o Lepre del Capo. Gli studi genetici svolti dall'Università di Sassari hanno accertato in modo incontrovertibile che la lepre sarda é la stessa della Tunisia. Un discorso abbastanza simile può essere fatto per la pernice sarda (Alectoris barbara), assente in Italia, in Corsica, a Malta e in Sicilia (dove vi é la pernice rossa), ma diffusa in tutto il nordafrica e a Gibilterra (ma non nel resto della Spagna). E qui i feniciomani sguazzano. In realtà, niente ci impedisce di pensare che questi animali siano stati introdotti dai cosiddetti Libi o dalle popolazioni indigene preesistenti che non avevano certo l'anello al naso. Il muflone, per esempio, si pensa sia arrivato dall'oriente, come pecora domestica, intorno al 6-7 mila a.C.
RispondiElimina@ illiricheddu
io non darei grande importanza al fatto che la lepre non scava cunicoli. E' vero, ma la gente comune fa di tutti gli animali simili un solo fascio. In Sardegna, per esempio, é curioso osservare che in tutto il centrosud la martora viene definita SCHIRRU o SBIRRU. E' facile notare la stretta parentela con l'inglese SQUIRREL, che però significa "scoiattolo", animale dei boschi tutto sommato simile alla martora. Apparentemente, i due termini dovrebbero essere derivati dal latino SCIURUS, ma a me questa derivazione mi lascia interdetto.
Allora ai sollecitatori: non stanziale intendeva dire che il coniglio non è animale giunto (la linguistica pare trovare conferma nella paleontologia) neanche con Roma, bensì dopo: cunigliu, cunillu sono chiaramente prestiti postlatini. Leppere è probm. prelatino, e siccome le lepri non fanno cunicoli (> coniglio), se ne deve poter dedurre che o A) la parola indicava un animale più simile a un coniglio (stante l'etimo del Pittau), e quindi "leppere" sarebbe un antico prestito per uno stanziale animale-lepre, in virtù della simiglianza meramente fisica; B) oppure che "leppere" non c'entra nulla con labirinto.C'est tout ici.
RispondiEliminaSos sardos ,in sas discussiones, amus s'abitudine ( e sutzedit frequente in custu blog) de colare dae s'azu a sa chipudda. In su mentres chi si discutit de Accabadoras si colat a su significcu de "cuniculos",leppores e cunillos... arriscande chi chie lezet no cumprendat prus nudda...
RispondiEliminada Massimo Pittau
RispondiEliminaAnche io avevo una volta connesso il greco labrys «ascia bipenne» col sardo láb(b)aru, ma in seguito ho trovato una soluzione che mi sembra molto più verosimile e che ho inserito nel mio «Dizionario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico»: «lábaru, lábbaru «labaro, stendardo» (Nùoro), «straccio, oggetto inutile e ingombrante, carabattola», «cattivo attrezzo», «soggetto o individuo strano, poco affidabile, incapace, indegno»; dal corrisp. ital. (M.P.). Vedi labaristru, srabus».
In latino è del tutto certo che cuniculus significava sia «coniglio» sia «cunicolo», per cui è gravemente errato intervenire per contestare questo fatto. Contra factum non valet argumentum dicevano già i Medioevali.