È più facile dirlo che farlo, ma sembra chiaro che la politica abbia perso l'occasione di trasformare la crisi industriale che ha investito la Sardegna in occasione per ripensare ad un modello di sviluppo diverso da quello in crisi. Le risorse intellettuali della nostra classe dirigente (politica, sindacale, imprenditoriale, culturale) sono state impiegate in una affannosa, e per di più inutile, corsa a tappare i buchi che la crisi internazionale andava aprendo in tutti i sistemi industriali locali: petrolchimico, metallurgico e tessile.
Sono una cinquantina le aziende che nel 2010 hanno messo i propri dipendenti in cassa integrazione, da quelle che sono approdate alle prime pagine dei giornali (Euralluminia, Vinyls, Portovesme, Legler) ad altre, come il Salumificio Murru e alla Vip Sardegna agroalimentare, che non hanno avuto questo onore. La Sardegna paga, quasi ovunque, lo scotto di una sciagurata politica di industrializzazione in cui si mescolano insipienze e complicità locali e politiche statali neo coloniali.
Le prime (in sintonia tutte, o quasi, le forze politiche, i sindacati, l'intellighentsia metropolitana) sognando una modernizzazione forzata della cosiddetta società arcaica attraverso dosi massicce di classe operaia; lo Stato felice di trovare in Sardegna tanti compradores disposti a lasciar governare dall'esterno l'economia sarda in cambio di una patente di “rappresentanti locali” dello stesso Stato. E a che costi. Secondo il quotidiano della Cei, L'Avvenire, solo nella Media Valle del Tirso sono stati bruciati 500 milioni di euro. “Tra accordo di programma, contratti d’area e contributi vari” scrive il giornale dei vescovi “se ne sono andati 500 milioni di euro. Soldi finiti letteralmente chissà dove. Stando all’ultimo rapporto della Corte dei conti, su 100 milioni di euro arrivati a Ottana, 80 hanno finanziato attività inesistenti”.
Certo, malfattori coloro che sono fuggiti col malloppo. Ma chi ha inseguito pervicacemente, e non ostante i fallimenti a catena proprio in quella piana, la ripetizione di errori passati, già pagati con uno sperpero incredibile di denaro pubblico, può davvero atteggiarsi ad anima bella? Che senso ha insistere in un modello di sviluppo che ha mostrato, ad Ottana come a Cagliari, a Siniscola come a Porto Torres, di aver fallito i suoi obiettivi?
C'è prima di tutto il dovere di salvare i posti di lavoro di chi sta per perderli o già li ha persi, certo. Ma con la coscienza di fare un'opera di assistenzialismo, non di sviluppo. E si smetta, detto per inciso, di prendersela con i pastori accusati di voler anche essi misure assistenzialiste. Se non altro per un po' di pudore. Momenti di crisi acuta come quella che c'è, e soprattutto come quella che si annuncia, hanno bisogno di grandi capacità inventive, anche nella utilizzazione di moderni strumenti fiscali come la Zona franca, per esempio, o come la elaborazione di un moderno Statuto di autogoverno in tutti i domini di nostro interesse.
Il dramma è che il soggetto primo, delegato da tutti noi a rappresentarci, il ceto politico intendo, è incapace di mettere da parte le proprie beghe. E dovremo rassegnarci a veder svanire l'opportunità che dalla crisi di un fallimentare modello di sviluppo si esca con un modello nuovo. Si cercherà di tappare, meglio che si possa, i buchi che via via si apriranno fino a quando ci sarà un solo unico buco nero: la Sardegna.
Mi consolo a leggerti, io vado silenziosamente dicendo (perché non ho autorità ne autorevolezza per farlo, ma parlo facendo i conti della serva) quanto da te sostenuto, forse da brava lulese che non ha dimenticato quando tziu nenneddu zizi disse no alla sir approdata poi ad Ottana. Probabilmente si cerca la via del rifinanziamento all'infinito di infinitamente inutili castelli di carte perché forse é più facile far sparire i soldi ... che non vanno certo nè agli operai, ne agli imprenditori locali. Ma io parlo come una semplice maestra di scuola che non capisce i grandi sistemi ... ma quanto si sarebbe potuto fare in Sardegna, per i sardi con tutti quei denari, investendo in altro che non il petrolio o i suoi derivati??? e forse non solo di turismo si potrebbe parlare che la Sardegna é grande noi in confronto proprio pochi ... mah ... chisà se i nostri figli potranno vedere albe migliori di quelle che per noi paiono solo tramonti
RispondiEliminaMeno male, mi conforta leggere queste parole, mi sembrava di vivere in una sorta di universo surreale in cui il rimettere, spesso a metà o comunque in misura inferiore, quello che si è tolto costituisce una grande vittoria.
RispondiEliminaTolgono 2,2 miliardi per la SS-Ol e le atre infrastrutture, trovano 162 milioni da un altro fondo... grande vittoria del governo regionale che dimostra che "uniti si vince" e ringraziamenti e salamelecchi vari a quello nazionale che si è dimostrato aperto e disponibile; ALCOA chiude, ALCOA non chiude... strepitoso successo, giubilo e inchini con baciata di piedi al governo italiano intervenuto provvidenzialmente, agevolazioni energetiche per 3 anni e tutto dimenticato, se ne riparla più avanti... risultato netto= 0; Vinyls, lasciamo stare; Furte? Per carità; lingua sarda con metà dei soldi-lingua sarda con soldi di prima... soldi in più dati alla lingua sarda= 0= vittoria. Si potrebbe continuare, ma preferisco fermarmi.
Certo è che anche Pirro sarebbe in forte imbarazzo di fronte a queste "vittorie".
Chi pensa ai modelli di sviluppo? Chi ci deve pensare? “La politica”? Tre domande una dietro l’altra. Sono del parere che avere un’idea purchessia sullo sviluppo, necessiti di qualche risposta a tali domande.
RispondiEliminaCominciamo dall’ultima. Rispondere di sì significa che non ci siano altri soggetti abilitati, poiché, finora, le scelte di politica economica le ha sempre fatte la “politica” e il risultato è quello di cui ci lamentiamo.
Non ci siamo dimenticati vero, la legge Medici sul banditismo? E quale miglior paradigma di ciò che non bisogna fare? Abbiamo presente che buona parte, se non tutta, della legislazione economica che ci ha riguardato prende piede da quella legge?
Il politico, per sua natura, parte da considerazioni di carattere sociale, per non dire sociologico. Anche il fior fiore degli economisti che si sono succeduti sullo scranno che oggi è di Tremonti, hanno dovuto sottostare a questo imperativo. Troppi sono i condizionamenti “politici” a cui deve assoggettarsi qualsiasi piano di sviluppo economico.
Come se ne esce? Ancora una volta con la libertà. Subito, per non essere frainteso: libertà non significa arbitrio. Libertà significa, imprescindibilmente, rispetto della Legge.
Continua.
continua
RispondiEliminaÈ bene avere un’idea sul significato di libertà in un contesto come quello di cui si parla. Il principio è sempre quello di sussidiarietà che comporta, inevitabilmente, un ridimensionamento della “politica” nei confronti di altre libere organizzazioni dei cittadini.
Non sarà sfuggito come abbia costantemente virgolettato il termine “politica”. Ho pensato, inizialmente a “classe politica” ma si poteva incorrere nell’errore di pensare a una particolare “classe”. E invece no! è la “politica” tout court che deve vedere ridisegnati i suoi confini. Come a livello istituzionale ci deve essere sussidiarietà fra i diversi ordinamenti pubblici: Stato, Regione, Provincia, Comune, così sussidiarietà ha da esserci fra le diverse componenti in cui si articola la società.
Per arrivarci una sola è la strada: un nuovo patto fondante fra i cittadini, una nuova costituzione. In queste cose non ci possono essere mezze misure: questo, sì; questo, no! Non ci possono essere preoccupazioni che crolli tutto. “Trista sa lolla chi ‘olit apuntedhada” diciamo dalle mie parti.
Chi ha le idee buone si organizzi in assemblea costituente, vada fra la gente e le faccia conoscere, poi si sottoponga al suo giudizio.
Mi sembra di aver dato una qualche risposta alla prima e alla terza domanda. Rimane la seconda: chi deve pensare allo sviluppo? Io un’idea ce l’avrei pure. Dovrei, però, andare in giro fra i cittadini, illustrargliela, farmi eleggere all’assemblea costituante e confrontarla con quelle degli altri padri coscritti. Figuriamoci.
Una cosa, infine, mi sento di dire: tutto questo che ho malamente abborracciato, è assolutamente indispensabile a chiunque voglia fare della nazione sarda uno Stato.