Fino a quando il federalismo si è limitato ad essere un oggetto volante non identificato non sono stati in molti a mettersi di traverso. Il club dei giacobini (a cui si aderisce senza presentare tessere di partito) si limitò a spolverare un vetusto armamentario in difesa dello Stato accentrato, concedendo al massimo la fattibilità di un decentramento amministrativo, ma tutto lì finiva. Quando nel 2005 un simulacro di federalismo diventò timidissima legge, quella sulla devoluzione, parte della destra, quasi tutta la sinistra e tutto il centro coalizzarono le paure per “lo sfascio dell'unità della Nazione” e vinsero il referendum contro quella (ripeto, timidissima) riforma. Ma si trattava, più che altro, di un tentativo di dare una sberla alla Lega e di bloccarne la crescita.
Sembrano questioni nuove, le paure e le resistenze, e sono, invece, vecchissime. Risalgono all'indomani della Costituzione, quando stavano per nascere le regioni a statuto speciale e quando lo spettro dello sfascio dell'unità fu agitato dall'estrema destra neofascista (ma in Sardegna anche dal Pci e dal Psi). Allora fu la semplice autonomia a sollevare la contrarietà e allora come oggi il punto dolente era il feticcio della unità d'Italia. Oggi che tutti sono autonomisti, sembra curioso pensare che nel 1947 il segretario sardo del Psi potesse scrivere: “Il punto di vista del partito socialista sull'autonomia come problema generale nazionale è naturalmente contrario all'autonomia”. E che per il Pci ci fosse il sospetto che, con l'autonomia, il governo centrale “dovrebbe ridursi a un semplice elemento decorativo e simbolico”. Fra i grandi partiti italiani, la Dc ebbe posizioni assai più avanzate, presentando un progetto di Statuto sardo (Venturino Castaldi) che, almeno, competeva con le proposte sardiste.
L'autonomia regionale è oggi una questione, almeno formalmente, risolta? Mica tanto: nel centrodestra c'è chi, come il ministro Brunetta, vorrebbe rimettere in discussione almeno le autonomie speciali. A sinistra la questione pare ben metabolizzata. Ma dall'interconfessionale club dei giacobini rispuntano di tanto in tanto tentazioni di fare piazza pulita, con la peregrina considerazione (Galli della Loggia) che le “Regioni sono state una gigantesca, costosissima delusione” e che hanno dato di sé “una pessima prova”. Il che è a volte vero, ma non sempre. Niente a che vedere, comunque, con la “gigantesca, costosissima” gestione dello Stato, arrivato ad un debito pubblico di oltre 1.700.000 milioni di euro, senza che ad alcuno venga in mente di revocarne l'indipendenza e di chiedere una nuova annessione all'Austria.
Il problema centrale è, di nuovo, la forma della Repubblica, dopo l'avanzata della Lega e il suo proposito di passare all'incasso del federalismo, non più solo fiscale ma anche politico e istituzionale. È questo a mettere in fibrillazione, oggi come sessanta anni fa con l'autonomia, il giacobinismo che, non a caso, evoca (Eugenio Scalfari) la “Vandea”, intesa non come regione che fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento resistette ai giacobini di Francia, ma come plebe controrivoluzionaria. La Vandea, va da sé, sono le tre regioni del Nord ad alto tasso di leghismo. È sempre dal complesso editoriale di cui Scalfari è fondatore, che vengono ancora allarmi (Camon, sulla Nuova): “L'Unità d'Italia è in frantumi” e una angosciante domanda: “Cosa celebreremo nel 2011?”, data in cui, come è noto, cade il 150 anniversario della trasformazione del Regno di Sardegna in Regno d'Italia. Il “grande inganno” di cui ci ha parlato il professor Francesco Cesare Casula.
Continuo a sperare che il club giacobino utilizzi questi suoi sforzi intellettuali per combattere Berlusconi e il centrodestra con mezzi più sofisticati, visto il fallimento della battaglia condotta frugando fra le lenzuola. Che quel club non ci creda, insomma, più di tanto. Pensare al federalismo vero come a un bau bau e all'Ottocentesca Unità d'Italia come a un baluardo di chi sa che cosa, mi pare segno di una regressione fanciullesca. E comunque un immane sforzo di menti brillanti per muovere contro i mulini a vento. Se anche Regioni come la Sardegna e la Lombardia conquistassero livelli di sovranità ad esse necessarie, dove sarebbe il pericolo per la Repubblica? Forse che ha creato problemi istituzionali il distacco di comuni da vecchie province per crearne di nuove? Ne creò il Molise quando nel 1963 si staccò dagli Abruzzi per costituirsi Regione a sé?
condivido quanto affermi ZFPintore. Penso che se l'Italia è in frantumi le responsabilità non siano recenti e siano proprio da ricercare nel rigido e miope centralismo.
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