Cosa dicono gli studiosi intervistati nell’inchiesta di Figari? Gigi Sanna ribadisce la sua convinzione che i sardi al tempo dei nuraghi avevano imparato a scrivere e della scrittura facevano largo uso (lo ribadirà, del resto, domani su questo blog in un intervento di risposta al professor Massimo Pittau). Altri studiosi, gli archeologi Momo Zucca, Alfonso Stiglitz, Alessandro Usai, Angela Antona (e Giovanni Ugas, il cui articolo su questo blog è citato dal giornalista) sostengono di no. Con, però, qualche interessante apertura: “per ora”.
A fondamento della loro negazione “per l’oggi”, c’è una riflessione che ha tutta l’apparenza dell'evidenza e che troverebbe d’accordo quanto scrive Eliseo Spiga nel suo bellissimo saggio-romanzo “La sardità come utopia” che consiglio a tutti. Ridotta all’osso la considerazione è questa: “La scrittura è affare di città e di stati e non lo è di una società come la nuragica, rurale, pastorale e contadina, che città e stato non hanno avuto.” Eliseo Spiga arriva a dire, fra il il serio e il faceto e comunque con fascino inarrivabile, che i sardi assaltarono imperi e stati per evitare che la metastasi statalista e imperialista contagiasse loro e questa parte del mondo.
È un’obiezione seria, quella dei negatori, ma a me sembra fondata su una lettura del passato con le prevenzioni nazional-stataliste ottocentesche: lo Stato, cioè, è l’unico sbocco di una società organizzata. Ho letto di peggio, su questa falsa riga. Come il fatto che i responsabili della Fusione perfetta del 1847 dell’Isola con gli altri stati sardi avevano preconizzato l’Italia unita. Dico il peccato non il peccatore, ma l’uno e l’altro ignorano (spero in malafede) che ancora undici anni dopo, a Plombières, Cavour e Napoleone III decisero di costituire nella penisola tre regni confederati e che di Italia unita neanche a parlarne. Figurarsi se poteva essere nei pensieri degli sciagurati fusionisti che, infatti, volevano essere ancora più dentro “su Rennu sardu”. La lettura a posteriori, e con schemi, in quest’ultimo sa tanto di inquietante Destino della Storia. Nel caso che ci riguarda, è un altro paradigma ideologico a dettare la lettura del passato: solo lo stato e il “potere centralizzato” (Stiglitz) hanno bisogno della scrittura.
Il professor Usai è convinto “che gli antichi sardi parlassero una lingua comune, da nord a sud”. Segno evidente, credo, di una organizzazione non casuale, unita dalla lingua, marchio incontrovertibile di società unitaria. Ma non urbana, non statuale, si dice.
Non urbana certo, ma perché non concepire la possibilità che anche una società policentrica e federale (Lilliu) ma unitaria (come mostrano gli studi di Ugas sugli shardana) sentisse il bisogno di comunicare per scritto, "come se" fosse Stato? Gli Stati uniti sono forse struttura meno unitaria per il fatto che un loro stato applica la pena di morte e un altro la condanna, in uno i gay possono sposarsi e in un altro sono discriminati? Perché essere tanto presuntuosi da pensare che solo la modernità possa concepire forme complesse di società in cui unità e radicale autogoverno comunitario marcino insieme?
A me sembra che il sillogismo messo in atto: le società non urbane non avevano bisogno di scrittura; la sarda era una società non urbana; ergo i sardi non scrivevano, assomigli pericolosamente a un altro famoso sillogismo che mise a dura prova la credibilità del povero calabrone. Si trovò in imbarazzo, il poveretto: si ostinava a volare scontentando quei filosofi che avevano decretato: “Un insetto così non può volare”.
Fuori dello scherzo, amici archeologi: e se fosse la premessa del sillogismo ad essere sbagliata?
PS. – Un malcostume invaso nel mondo dei quotidiani sardi (e non solo) impone ai giornalisti di non citare per nome, cognome e testata il giornalista e il giornale cui si fa riferimento. “Secondo quanto afferma un quotidiano”, “un’emittente televisiva sostiene” sono le citazioni usate. Il fatto che Figari faccia riferimento a questo blog e non “a un blog” è una buona cosa che mostra che su sàmbene no est aba. Lo ringrazio non tanto per la citazione, quanto per il segnale dato che la civiltà è ancora possibile.
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