Le preoccupazioni di chi teme che una lingua nazionale distrugga i suoi dialetti hanno in questi ultimi anni disteso buoni argomenti (sia pure, a me pare, parossistici), sindromi vittimistiche e ragionamenti pretestuosi. Quasi tutti, questi ultimi, tesi al non fare e spia di un atteggiamento di sostanziale negazione della possibilità per il sardo di uscire dal folclore e dal localismo esasperato.
Non è un caso che fra i più accesi sostenitori del localismo ci siano quanti per anni, soprattutto intorno al Settanta e all’Ottanta, si sono schierati contro il riconoscimento della lingua sarda. Sono coloro che hanno fatto battaglie epiche contro la proposta di legge di iniziativa popolare sul bilinguismo (1975-76); che nel 1989 in Consiglio regionale hanno affossato con voto segreto la timidissima legge sulla lingua; che nel 1997, persa la battaglia contro il sardo, imposero la trasformazione della legge sulla lingua in legge per la cultura e per la lingua sarda, impedendo che la Sardegna si dotasse di una politica linguistica.
È nata in questi ambienti, persa la guerra santa contro il sardo, la battaglia per la parcellizzazione, sfruttando la paura che un processo di unitarietà della lingua potesse comportare danni alle parlate locali. Si tratta naturalmente di una incolta sciocchezza che non tiene conto di due fatti conosciuti: a) neppure 150 anni di imposizione della lingua italiana sono riusciti a distruggere dialetti e lingue preesistenti, nonostante la messa in campo di strumenti di coercizione enormi, dalla scuola al cinema, dall’esercito alla televisione al tentativo, abortito solo per fine di legislatura, di introdurre in Costituzione che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano; b) il radicamento dei dialetti nelle comunità di riferimento.
Pur incolta e strumentale, la battaglia per dividere per meglio comandare ha fatto danni cui non sarà facile rimediare: si è insinuata e ha fatto nido in persone che magari si dicono parte del popolo sardo ma non riescono a trarre le conseguenze da questo senso di appartenenza. Le cose peggiorano notevolmente quando a dar corpo alle ombre ci si mettono coloro che di mestiere fanno i linguisti e, quindi, hanno l’obbligo della scientificità delle loro affermazioni.
Capita così di leggere un articolo della professoressa Marinella Lõrinczi, solitamente garbata e problematica nel suo scrivere. Personalmente stento a condividere la sua visione dei problemi della lingua sarda per quanto legittima e ben argomentata. Questa volta, però, temo che si sia lasciata prendere la mano nella condivisione di quel senso di vittimismo che contraddistingue alcuni cittadini sardi abitanti nei Campidani. Nei loro confronti, secondo la professoressa, sarebbe in atto una discriminazione “non giustificata da nulla di scientifico o di storico (il campidanese è meno lingua del logudorese? i Campidanesi avranno mai oppresso gli altri?), se non dai luoghi comuni culturali o dagli stereotipi nazionalistici, dai quali dovremmo guardarci bene”.
“Stereotipi nazionalistici”? Addirittura. Esistono, dunque, due nazioni in Sardegna, una della quale (immagino la logudorese) discrimina la nazione campidanese. E dove mettiamo i baroniesi, i nuoresi, gli ogliastrini del nord e quelli del sud? Che dire della "Nazione" gallurese, e delle "nazioni" tabarchina, catalana e sassarese? Anche queste, evidentemente, sono vittime degli “stereotipi nazionalisti”. Guardiamoci, certo, dagli stereotipi. Ma da tutti.
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