venerdì 25 maggio 2012

A Washington D.C. con triglie al cartoccio e funghi trifolati nel cuore


di Francesco Cesare Casula

Quando il gravido Boing 747 pestò la pista bordata di lumini arancioni del National Airport e fece a gara con gli altri aerei per guadagnarsi finalmente il terminale telescopico, entrambi erano stremati da nove ore di volo transoceanico, via New York. Lei, elegantissima, dritta come un fuso, occhieggiò la fine del segnale di fasten seat belts e schizzò via veloce col suo beuaty case davanti a tutti per arrivare prima ai rulli del bagage claim. Lui, più anziano, le tenne dietro faticosamente nella trachea oscura del lungo tunnel d’uscita, gravato dal borsone, dal borsello e dalla macchina fotografica: e fu quarto. Le loro valigie arrivarono per ultime. Si guardarono in cagnesco, colpevolizzandosi a vicenda.
Superato il bailamme di immigrati centramericani con scatoloni legati a spago, le vacanziere coppie di raffinati diplomatici con le mazze da golf, i garruli gruppi di tosati militari in licenza coi bauli d’ordinanza, si diressero traballanti verso la chiassosa stazione dei taxi e scodellarono in faccia a un lucido negrone al volante la frase in inglese preparata da giorni: «State Plaza Hotel, please». Dovettero mostrare l’indirizzo scritto a stampatello su un foglio, per farsi capire.

Sebbene fossero le dieci di sera (10 p.m.), Washington D.C. – quella del District of Colombia, of course, non una Washington qualsiasi degli Stati Uniti – era un forno. L’aria afosa e umida di mezzo agosto incombeva come un sudario sulla cimiteriale distesa cittadina, tutta parchi e monumenti spettrali illuminati a giorno coi vapori di mercurio.
Non si parlarono mai durante il tragitto. Tesi a sopravvivere, cercavano di non toccarsi e di non appoggiarsi al caldo sedile di vilpelle. Boccheggiando sui finestrini aperti intuirono scorrere le nere acque del Potomac sotto il George Mason Mamorial Bridge; colsero con occhi appannati il giallo malato dei radi lampioni specchiarsi nel placido bacino del Tidal Basin; guardarono abbacchiati le flaccide bandiere a guardia della vasca della Reflectin poll. E si odiarono.
Non era un odio d’amore, come quello sano di due amanti che hanno esaurito la loro esperienza e si vogliono male, ma quello di due avversari ancestrali, di due acerrimi nemici parati a combattersi, a distruggersi, a cancellarsi dalla faccia della Terra fino all’orgasmo.
Erano due mondi allo scontro: a lui, nato in riva al mare, piacevano le triglie al cartoccio; a lei, montanara, andavano i funghi trifolati. Non poteva esserci intesa; semmai, un temporaneo armistizio a base di neutri hot dogs. Il tassista si fermò al 2117 della ESR.N.W., quasi all’angolo con la 20 St., davanti ad un edificio basso, anonimo, riservato, che sembrava più un circolo ricreativo che un albergo; infatti, più in là, c’era il “The City’s Top Concody Club”.
La prima impressione fu di turlupinatura, ed il risentimento ruggì nei loro animi; poi, con l’occhio esercitato dei viaggiatori di mondo apprezzarono il tono civettuolo della piccola hall stile impero; e si calmarono.
La registrazione fu rapida, a base di grugniti. Alla fine, ci fu una bruciante interrogazione: «... haw do you pay?, come pagate?» Lui colse subito il senso perché aveva studiato più di lei, e rispose avventato: «For cash, in contanti». Un lampo di disperazione attraversò la pupilla fioca del consierge e gli s’irradiò fino alle mani che presero a tremare. Gli americani, è noto, non conoscono il pallottoliere e non sanno contare le banconote oltre il dieci.
Lei, perspicace come tutte le donne in fatto di denaro, gli diede una forte botta sotto la pozza sudata delle ascelle e ringhiò: «Usa la carta di credito – aggiungendo amabile – honey (miele)». Lui capì e tirò fuori, con ostentazione, la sua Eurocard da 1.500.000  di lire it. (pari a circa 1.000 dollari U.S.A.) come a dire: «Cosa credi? Che non ce l’ho?».
Di fronte al colorato cartoncino di plastica il sorriso tornò a stamparsi sulla terrea faccia anglosassone dell’uomo del banco.
«Ok?»
«Ok!»
«Occhei!»
Erano le magiche parole di chiusura, quelle che sanzionano qualsiasi accordo o trattato statunitense, dalla compravendita di noccioline allo smantellamento dei Cruiser a medio e corto raggio e, forse, anche dei missili intercontinentali.
Seguirono, taccheggianti, il facchino negro – nero come un negro di Harlem – lungo i lunghi corridoi del Blocco A; attraversarono con aria schifata il puzzolente garage for guests; imboccarono i corridoi del Blocco B e, infine, levitarono con un ascensore musicale fino al sesto piano, l’ultimo, da dove si vedeva la «wanderfull Washington after dark» con sopra le stelle avanzate all’Union Jack (l’ignota bandiera americana a stelle e strisce).
I denti del facchino se n’andarono, con tre one dollar in più nelle tasche (mancia esagerata).
Finalmente soli, nella lovely alcova refrigerata per pinguini.
Si scrutarono, per un istante eterno, nel fondo degli occhi:
«Non vorrai spegnere il condizionatore!?»
«Non vorrai lasciarlo acceso, spero!»
«Sì!»
«No!»
«Sì!»
«No!»
Era la guerra fredda.
L’odio si caricava e la furia montava nei petti rispettivamente gonfi di floride mammelle appenniniche e di lunghi peli mediterranei; ma vinse ancora per poco la trattativa privata: lui ricordò le sue spiagge assolate, lei dimenticò le sue cime innevate e, insieme, s’accordarono per lo slow, la tacca al “minimo”. Quindi, si posero chi da una parte chi dall’altra del grande letto a due piazze per disfare le valigie: un’operazione rischiosa, piena di incognite e d’insidie interpretative. Ce l’avrebbero fatta? Sarebbero giunti a vedere il fondo delle Samsonyte senza incidenti?
Cominciarono con la biancheria intima: una mutanda lui, una mutandina lei. Attenzione! C’era subito una sproporzione. Lui sopravanzava di una spanna lo slippino di lei! Digrignarono i denti, rotearono le pupille. Erano entrati, ormai, nello stato di pre-belligeranza. Un reggiseno di lei riequilibrò la situazione e l’opera di pavoneggiamento riprese cauta, cautissima.
Facevano finta di nulla ma, in realtà, si controllavano a vicenda guardandosi in sottecchi, esaminando, soppesando, valutando ogni capo tirato fuori dall’avversario: pigiama di seta lui, negligé col pizzo lei; canottiera di cotone lui, maglietta di lana lei; calzine corte lui, collant sfilati lei.
Così, pezzo dopo pezzo, erano arrivati ai vestiti. Ce n’era per ogni occasione e momento: mattina, pranzo, pomeriggio; sportivi, mezza sera, gran gala; scollati, attillati, sgambati; seri, castigati, audaci; frivoli, buffi, provocanti.
Il casus belli scoppiò al momento di sistemarli.
L’armadio a muro, nell’antibagno che immette nel bagno (il quale, sia detto per inciso, NON ha il bidé), conteneva solo undici appendiabiti, detti in gergo grucce o anche omìni (in Toscana): cinque per ciascuno più uno d’avanzo.
A chi spettava? Chi lo doveva prendere?
«Io, perché ho più abiti di te», fece lei scoccandogli un’occhiata da incenerirlo.
«Io – ribatté lui acre, uccidendola telepaticamente – perché i miei sono doppi, avendo giacca e pantaloni».
Alla menzione dei pantaloni il volto di lei sbiancò. Orribili immagini di antichi affronti maschili le tornarono alla memoria. Rivisse il dramma della sua vita angariata da uomini in calzoni, ed urlò: «Adesso, basta!». Era il punto del non ritorno; era la GUERRA.
Scattò la moviola, e tutto si svolse al ralenty come per un goal di Maradona.
Afferrarono entrambi il proprio cuscino: l’arma più terribile a portata di mano. Lo sollevarono sopra la testa, lo puntarono e se lo scagliarono contro con una forza pari a 12 profiterols da 3.000 mega-calorie l’uno.
Spaventoso!
I cuscini s’innalzarono lenti, immensi, maestosi. S’incurvarono, descrissero un ampio semiarco romanico, s’intercettarono al culmine della parabola e si scontrarono.
Deflagarono con discrezione, provocando un ppppppah! ovattato.
Le penne, liberate dalla fodera, fluttuarono lentamente, scoperchiarono il tetto di cartone (i Russi non sanno che le case americane sono di carta pressata) e volarono, volarono, volarono “nel blu dipinto di blù, felici di stare lassù”, mentre l’onda d’urto dell’esplosione rotolava da uno spiraglio della finestra nella strada sottostante e si dirigeva ad est, verso la Casa Bianca.
Nel suo passaggio non risparmiò niente e nessuno: non salutò il guardiano notturno dell’hotel, strappò con disprezzo l’insegna dell’attigua ambasciata nicaraguense, buttò giù le bacheche della vicina Washington University, scompaginò più in là gli atti del premio “B.A. Houssau” custoditi in una stanza dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani, detta in americano OAS, Organization of American States), e si sarebbe riversata con conseguenze incalcolabili nella White House’s Ellipse se la mole massiccia dell’Executive Office Building (dove s’immolano TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE) non si fosse frapposta fra il mostruoso refolo d’aria e la Culla dei destini dell’Umanità...
Esaurì la sua carica nel Mall, visitando gli Smithsonian Instituts. (Alcuni mormorano che si sia persa nella visione di Dream is Alive al National Air and Space Museum).
Intanto le penne, dopo essere arrivate “più in alto del sole ed ancora più su”, cominciarono a ricadere dondolando sulla città addormentata (con un occhio solo perché l’altro vigila sempre sulle continue sparate di Gheddafi e sugli sproloqui di Bettino Craxi).
Le prime a venir giù furono quelle di lei, più pesanti, più deleterie, perché cercava da tempo un marito idoneo e voleva assolutamente riaccasarsi in vista degli “anta”: erano penne all’arrabbiata.
Occultarono alla vista dei turisti il frontone greco della Supreme Curt Building, essendo ridicolo; scherzarono coi boriosi marmi della Statuary Hall of The Capitol; imbrattarono di bianco i muri beige della Casa Bianca; scarabocchiarono i disegni persiani dei tappeti dell’Oval Office, dove il Presidente (THE PRESIDENT) riceve only on formal occasions le più alte personalità dell’Orbe, compreso Andreotti e, con adeguati tacchi a spillo, Amintore Fanfani; turbinarono attorno alla pensosa statua di Abramo Licoln, al Lincoln Memorial, per convincerla ad alzare la testa e dare un giudizio spassionato su Reagan; saltarono a piè pari il chiosco del Jefferson Memorial in quanto non valeva la pena fermarvisi; tracciarono sull’Arlington National Cemetary la frase latina “sic transit gloria mundi” usando per il puntino dell’ultima “i” la grande testa di bronzo di John F. Kennedy prelevata dal Gran Foyer del Kennedy Center; e, infine, pietose, ricoprirono per sempre le vergogne del Water Gate.
Le penne di lui, invece, arrivarono dopo, con calma, essendo meno incalzate dallo stato civile.
Si adagiarono lievi su Ginevra de’ Benci della National Gallery sussurrandole dolci parole e tentandola a spogliarsi (sempre donnaiolo!); s’intrufolarono con grida goliardiche fra i gabbiani della Seagull State by Ernesto Begni del Piatta; finirono la notte bevendo birra a Georgetown.
All’alba la città era tutta nascosta sotto una coltre di penne. Spuntava soltanto, al centro, come monito al mondo, il fallo eretto del Washington Monument, un obelisco alto 555 piedi americani.
Dal torpido fall aut si salvarono solo lui e lei.
Al momento dello scoppio, consci del pericolo, avevano innestato il replay ed erano retrocessi al National Airport. Ripreso l’aereo, se n’erano tornati quatti quatti in Europa, via New York.

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