venerdì 23 settembre 2011

Il rame e la rigenerazione della vita


di Giorgio Valdes

L’introduzione della lavorazione del rame in Sardegna si fa risalire al 2800/2700 a.C. circa e pertanto in corrispondenza della fine del neolitico recente e della cultura di Ozieri.
I Pelasgi chiamavano il rame pacur o bacur, parole che non presentano alcuna affinità con il termine sardo ràmini o con quelli in uso tempo fa, come:  ràmine, arramini, ramu (dal vocabolario del canonico Giovanni Spano), ma che possono invece ricollegarsi alla parola tardo latina cuprum (precedentemente chiamato aes), che rimanda all’isola di Cipro, uno dei più importanti luoghi di estrazione, talché i romani usavano chiamare il metallo proveniente da quell’isola come aes cyprium o aes cuprum.
E’ opinione diffusa, specie tra i cultori del classicismo ad ogni costo, che la parola rame origini dal latino parlato aramen, a sua volta derivato dalla citata parola aes.
Ma a parte la radice aes, da dove è saltato fuori il suffisso ramen?
Non solo, ma è credibile che i sardi, i quali conoscevano questo metallo e la sua lavorazione quanto meno dagli inizi del terzo millennio a.C., non gli avessero assegnato alcun nome, aspettando che fossero i latini ad attribuirglielo, più di 2000 anni più tardi ?
Si tratta ovviamente di una tesi poco credibile e quindi, per prospettare un’ipotesi più realistica sull’origine del vocabolo, occorre fare una piccola digressione, osservando che nello stesso periodo della  presunta comparsa in Sardegna di questo metallo, in Egitto terminava il periodo predinastico ed iniziava quello dell’Antico Regno  (III dinastia).

Con la terra dei faraoni i nostri antichi naviganti avevano stabilito frequenti contatti, probabilmente da qualche migliaia d’anni prima (i sardi navigavano per commerciare ossidiana quanto meno a decorrere dal VI millennio a.C.), al punto che, come afferma lo studioso Antonio Bonifacio riprendendo le considerazioni del celebre egittologo sir Wallis Budge, nei Testi delle Piramidi si parla quasi ossessivamente dell’isola della creazione, situata nel bell’occidente, luogo da cui provenivano i primi re stellari egizi.
Lo stretto rapporto tra quell’isola (che poteva verosimilmente identificarsi con la Sardegna) e la terra d’Egitto, è tra l’altro confermato da elementi comuni come il culto dell’acqua e quello dei morti, che a loro volta si connettevano al concetto più generale e profondo di rigenerazione della vita, su cui si fonda la nostra primitiva cultura come quella nilotica.
Concetto che trova una delle sue più potenti espressioni nel simbolo della falsa porta, rappresentato dall’immagine scolpita di una porta chiusa, attraverso la quale si pensava che l’anima del defunto potesse transitare liberamente nel mondo dei vivi.
Ma mentre la falsa porta egizia compare probabilmente e  per la prima volta sotto il regno del faraone Djoser (2667-2648 a.C.), in Sardegna si rinvengono rappresentazioni analoghe sul prospetto di diversi menhir e soprattutto in alcune domus de janas risalenti a qualche secolo precedente; circostanza che stimola importanti interrogativi sulla progenitura di tali figure, presenti in entrambe le culture mediterranee.
Tuttavia, a parte queste considerazioni che meriterebbero un attento approfondimento, è assolutamente ragionevole ipotizzare che la parola sarda ramini possa originare da termini geroglifici in uso nell’antico Egitto, considerato tra l’altro che in quella terra l’utilizzo del rame risale probabilmente alla metà del quinto millennio a.C.
Intuitivamente, ed a prima vista, si potrebbe anche osservare come tale vocabolo sia composto dall’ideogramma del dio del sole, con valore fonetico Ra e da quello del dio itifallico Min, indicativo della potenza sessuale.
Ra e Min sono tra l’altro due termini ricorrenti nella nostra toponomastica (Nuraghe, Nuraminis, Nurra, Soleminis, Karalis, Barumini….).
Ma prima di valutare se una tale ipotesi è più o meno attendibile, occorre risalire al segno con cui in Egitto veniva indicato questo metallo.
Il segno egizio hm
Tale segno era costituito da una sorta di buca con acqua, “geroglifico che rappresenta l’utero con valore fonetico hm (connesso a varie parole tra cui  hmt = donna)[1], dove h ha un suono enfatico, emesso dalla gola.
In assenza di fonogrammi vocalici, tra la h e la m si interpone convenzionalmente una e o una a, per cui la parola può leggersi, indifferentemente, anche come hem o ham.
Secondo l’egittologa Betrò, docente presso l’Università di Pisa “ ….come hmt il segno finì per designare, insieme all’utero, anche il rame”.
Non è chiara quale sia l’attinenza esistente tra i due significati del geroglifico, ma è indubbio che il rame rappresentasse qualcosa di prezioso come lo erano il ventre materno e l’acqua, entrambi intesi come fonti di vita e luoghi di anelato ritorno.
Lo specchio di Venere
E non è un caso se la predetta buca con acqua “entrò nella grafia di un’importante classe di parole connesse all’idea del meraviglioso, dal termine stesso per “miracolo” al nome dato alle miniere e ai minerali preziosi” (Betrò).
Va anche osservato che attualmente il cosiddetto Specchio di Venere, simbolo della donna, è per gli alchimisti anche emblema del rame.
E’ altrettanto curiosa la presenza in Sardegna della miniera di Funtana Raminosa, attiva in periodo nuragico, il cui nome richiama sia l’elemento liquido che il pregiato metallo di cui si tratta.
Vaso da S' Anastasia, Sardara
Detto questo, per scoprire  l’origine del termine sardo ramini (e simili), senza scomodare i latini, ci vengono incontro le simbologie riportate su alcuni vasi rinvenuti a Sardara, in località S.Anastasia (dove è stata anche raccolta un’impressionante quantità di oggetti, gran parte dei quali realizzati in rame o in bronzo).
Questi vasi presentano figure analoghe a quelle che si rinvengono nei vasi egizi denominati Ka, di cui si è fornita una precedente interpretazione, riportata in sintesi nelle note[2].
Tuttavia si può proporre un’altra, analoga spiegazione, se si osserva che i cerchielli del sole (in lingua egizia Ra) che sovrastano la coppa sporgente (geroglifico hm), sembrano penetrare all’interno della stessa coppa sino ad intercettare le sottostanti greche, che sempre in termini geroglifici raffiguravano l’acqua nu ed avevano il valore fonetico n.
Il segno egizio Ra
Rileggendo i simboli nel loro complesso si otterrebbe allora la parola ra-hm-n o rahmen, evidentemente simile ai vocaboli sardi ramini o ramine che dir si voglia.
Ma anche il termine ramu, indicato nelle premesse ed utilizzato nel nord Sardegna (dal vocabolario del canonico Giovanni Spano), è leggibile sulla superficie del vaso di S.Anastasia, se si considera che in geroglifico la raffigurazione di più greche si legge mw ed ha il significato di grande quantità d’acqua.
Sin: geroglifico per acqua, nu
con valore fonetico n; 
Dx: “frammento di vaso, 
a nome di Ka” (ca. 3150-3100 a.C.)
In questo caso, la sequenza dei segni geroglifici sarebbe: ra-hm-mw = ramu.
Tutte parole che in un periodo molto successivo sono state sicuramente acquisite dalla lingua latina e trasformate in aramen.
Per tornare infine alle considerazioni precedentemente proposte e riferite  all’abbinamento fonetico tra Ra e Min, è altrettanto interessante rilevare come anche l’emblema del dio Min fosse un simbolo rappresentativo dell’utero, con lo stesso valore fonetico  hm = hem = ham della buca con acqua che adorna il vaso di S.Anastasia.
L' emblema del dio Min, con
valore fonetico hm, ham, hem
Ciò conferma tra l’altro l’importanza che la nostra antica cultura attribuiva a questo metallo, al punto di associarlo ai concetti di rigenerazione della vita e di rinascita, che trovano continua ed ampia espressione nei petroglifi e nelle forme stesse dell’intero nostro patrimonio megalitico.

p.s.: Non me ne vogliano i cultori del classicismo, ma  pretendere di far originare la parola ramini dal termine latino aramen….è una frescaccia colossale





[1] Maria Carmela Betrò : “Geroglifici”
[2] A proposito del vaso di Sardara, riporto anche l’immagine di un frammento di vaso “Ka” - ritrovato nella necropoli reale di Abido e risalente alla dinastia 0 (ca. 3150-3100 a.C.). 
In esso sono raffigurati alcuni segni in carattere semicorsivo, tra cui presumibilmente: il “ka” (lo spirito o potenza vitale dell’uomo), evidenziato con i tre segmenti convergenti, a loro volta sormontati da tre cerchielli, simboli geroglifici del sole “ra”; la linea ondulata “nu”, con il significato di acqua e, in mezzo alle due figure, una buca o coppa con acqua, che in termini geroglifici si legge “hm”, significa “utero” e si connette a varie parole tra cui “donna”.
L’interpretazione complessiva potrebbe essere quella della “rigenerazione della vita”, con lo spirito dell’uomo (affine al rovesciato presente nei petroglifi di “Sos Furrighesos” ad Anela e di “Sas Concas” a Oniferi e nei menhir di Laconi), che ritorna all’acqua primigenia, attraverso l’utero materno.
Sta di fatto che nel vaso di S.Anastasia è verosimilmente riportato lo stesso concetto evidenziato nei vasi egizi, con i cerchielli del sole (la vita), che convergendo e discendendo nell’utero materno (la coppa), intercettano l’acqua (la greca alla base del vaso), prima fonte di vita.







11 commenti:

  1. L'ho letto due volte.
    Complimenti! Davvero un ottimo post.
    Grazie.

    RispondiElimina
  2. chissà come i nuragici chiamassero ill bronzo invece, si ha traccia nella storia?

    RispondiElimina
  3. III dinastia... faraone DEN .. il suo nome era SHER.TANI.. che casuale coincidenza...!
    Nella sua "Palette" figurano dei cacciatori con una sorta di BOOMERANG che si ritrova nel Museo del Cairo e nei bronzetti SHARDANA... toh!

    RispondiElimina
  4. @ Leo
    Den è un po' precedente (circa 3050 a.C., I^ dinastia, epoca Tinita), ma tornano comunque i conti, perchè è intorno a quel periodo che probabilmente in Sardegna inizia la lavorazione del rame.
    Per quanto riguarda il boomerang, come sai bene gli egizi lo chiamavano m3t (mat) ed era l’emblema dei popoli stranieri, tra cui i shardana. Se dai uno sguardo al mio post del 12 Settembre 2010, “il troiano e lo shardana di Medinet Abu”, noterai che di fronte al prigioniero con elmo cornuto e disco solare c’è un biglietto da visita geroglifico con scritto “shardana” e quindi proprio un bastone da lancio, oltre ad altri segni che indicano il mare e cosine varie che potranno essere tradotte da un egittologo e non da un dilettante come me.
    Saluti
    Giorgio

    RispondiElimina
  5. Yes Giorgio, lapsus .. Den era il III della prima dinastia..
    Ma valle a raccontare ai nostri archeobuoni queste cose... ! Vedrai che anche a te affibbieranno l'etichetta di "Fantarcheologo di stampo sardista con pulsioni indipendentiste"!
    Kum Salude.
    Leonardo

    RispondiElimina
  6. Giorgio,
    ho serie perplessità sulla prima riga del tuo contributo.
    Riguardo al rame, in Atzeni et alii -2005- Archaeometallurgy in Sardinia, from the origins to the beginning of the Early Iron Age, si riporta per esempio che fin dal Neolitico recente (Tykot 4000-3200 BC) nel villaggio Su Coddu, Selargius, risultano presenti scorie di fusione di rame.
    La datazione cui tu fai riferimento è piuttosto riferibile alla lega bronzo (voce che in latino suona ancora aes). Infatti, nella stessa pubblicazione ho trovato che la prima attestazione circa un prodotto della metallurgia del bronzo in Sardegna sia una lama di bronzo (di pugnale?) da Mesu ‘e Montes, Ossi, tomba II, dell’Eneolitico (Tykot 3200?-2200? BC).

    RispondiElimina
  7. Ti dirò che anch'io ho diversi dubbi sulla periodo in cui in Sardegna si cominciò a fondere il rame, soprattutto perché sono convinto che se i protosardi navigavano per commerciare oggetti di ossidiana a decorrere dall’8000/6000 a.C.(magari portandosi dietro una scorta di lumachine), qualche migliaio d’anni dopo, diciamo per prudenza intorno al 4000 a.C., se non avevano ancora inventato l’”Evinrude”, poco ci sarebbe mancato.
    E’ quindi ragionevole ipotizzare che i traffici marittimi tra l'isola, l'Egitto e gli altri luoghi di produzione di questo metallo, attestati sul Mediterraneo orientale, siano iniziati molto prima del periodo che ho indicato nel mio post e che da allora i nostri antichi naviganti si siano tra l’altro impratichiti nel metodo di fusione e lavorazione del rame, apprendendolo dalle popolazioni che andavano a visitare.
    Discorso analogo meriterebbe il ferro, il cui utilizzo, in Sardegna, potrebbe essere retrodatato di parecchio, se si dovesse dar credito a diverse, verosimili considerazioni proposte da varie persone.
    E non è detto che prima o poi da noi si arrivi ad una sostanziale traslazione delle epoche storiche convenzionalmente legate ai metalli ed alle loro leghe.
    Saluti

    RispondiElimina
  8. Bene, caro Giorgio,
    allora visto che mi stuzzichi sul vivo debbo riprendere un altro argomento da te portato avanti tre volte negli ultimi giorni: l’ossidiana.
    A commento dell’articolo di Bellamente sulla Tudorella sulcata s. str., dicesti tra l’altro: «[…] la presenza di oggetti di ossidiana […] lascia supporre come i sardi navigassero quanto meno nel sesto/settimo millennio a.C.» - Sull’articolo in cui insistiamo invece dici: «i sardi navigavano per commerciare ossidiana quanto meno a decorrere dal VI millennio a.C.» - In risposta al mio commento fornisci ancora un’altra versione circa le tue conoscenze dell’argomento, affermando: «se i protosardi navigavano per commerciare oggetti di ossidiana a decorrere dall’8000/6000 a.C.».
    Ebbene, di già su questo sito, varie volte e da ultimo in occasione di un mio commento sulla Tudorella scrissi che: « si da il caso che al Riparo Mochi, in Liguria, fu trovato un grattatoio d’ossidiana, datato a circa 12.200 B.P. Si da ancora il caso che all’Arma dello Stefanin, sempre in Liguria, sia stato trovato un raschiatoio di ossidiana datato fra 11.900 e 10.300 B.P. Nello stesso libro, edito tre anni fa, si dimostra come artefice di quel trasporto di materiale, avvenuto quindi almeno a partire dal XIII millennio prima d’ora, non potesse essere altri che il marinaio Sardiano, sulla base di molti parametri e con il conforto di TRE TESTIMONIANZE». Ovviamente consumo molte decine di pagine per arrivare a tale conclusione.
    Ordunque, vedendo come al tema ossidiana non hai riservato (poiché non v’ha alcuno che possa fare tutto) una tua specifica ricerca, ove volessi allargare il tuo sapere nel merito, e nel caso tu fossi interessato, mi permetto di dirti che il mio primo libro trovasi in 125 biblioteche, ma anche in vendita presso Libreria Cultura Popular a Sant’Antioco; ed ove ti fosse ancora difficile questa via, potresti andare sul www.sardegnastoria.it e farmene richiesta (gratuita perché mi pare la tua persona lo meriti).
    Con stima, mikkelj.

    RispondiElimina
  9. Caro Mikkelj
    ti ringrazio per la considerazione e disponibilità e ti confermo che se delle peregrinazioni dell'ossidiana ne so ben poco, per altro verso l'argomento mi interessa molto ed ancor più mi interessano le tue considerazioni in merito.
    Per cui cercherò nelle biblioteche di Cagliari (o in quella di S.Antioco che comunque deve aver cambiato recapito telefonico rispetto a quanto segnalato sul web)il tuo libro, che mi pare si titoli "Kerkendesossardos" (già il titolo è intrigante) e lo leggerò con piacere.
    Tengo ad acquistarlo perchè ritengo in tale maniera di attestare, simbolicamente, un apprezzamento preventivo per l'autore, che sinora ho avuto modo di conoscere solo tramite questo blog. Vorrà dire che quando avremmo modo di incontrarci, ti carpirò una dedica.
    Saluti
    Giorgio

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.