martedì 28 settembre 2010

La crisi dello Stato nazione non è un maldipancia passeggero

Non ostante i tentativi di imbarbarimento della politica in Sardegna, anche con scandali di riporto, quello sardo non è ceto politico tanto decomposto quanto quello dell'Italia continentale. E anzi si avverte qua e là un desiderio di prenderne le distanze e, in alcuni protagonisti, la coscienza che lo Stato-nazionale è vicino al capolinea. Da qui la prova, assolutamente bypartisan, di sganciamento da questo Stato, vuoi attraverso l'indipendenza statuale, vuoi attraverso processi di acquisizione di sovranità “al limite dell'indipendenza”, vuoi attraverso un ambizioso progetto di ridisegnare dal basso un nuovo Stato italiano che prenda atto della sua natura plurinazionale.
Un'altra parte della società sarda (anche questa bypartisan come la prima) preferisce illudersi che si tratti di una crisi passeggera, una malattia che può essere curata con dosi massicce di retorica patriottarda e di richiami alla “unità d'Italia” robusta e stabile, solo minata da quattro matti da rinchiudere e comunque da isolare o da irridere. Eppure, la coscienza che la crisi dello Stato-nazione sia profonda è molto diffusa, come mostra l'irrompere nel dibattito politico e culturale di concetti come “sentimento nazionale” e “unità nazionale”. Proprio la frequenza ossessiva del richiamo all'uno e all'altro è lì a dimostrare che la loro tenuta è in crisi. Chi si sente italiano, parte cioè della nazione italiana, non rivendica ad ogni momento la propria appartenenza, la dà per scontata.
L'appellarsi, come fanno editorialisti, intellettuali e politici, alla necessità di una “coesione nazionale” in difficoltà è sintomo che qualcosa di profondo sta succedendo. C'è, in editorialisti e intellettuali, la tentazione di confondere causa ed effetto: si addebita, cioè, questa crisi, più avvertita naturalmente nella periferia che nel centro del potere, a fenomeni come il leghismo, l'indipendentismo sardo, il sicilianismo, l'affermarsi delle questioni linguistiche. Sarebbero questi, insomma, all'origine della crisi dello Stato nazione e non il contrario.
Il fatto è che, centocinquanta anni dopo la sua proclamazione, l'unità d'Italia sta mostrando la fragilità estrema delle sue basi anche a chi è convinto che l'unità della Repubblica sia un valore da preservare. Figurarsi negli altri. La formazione della nazione italiana che avrebbe dovuto, secondo D'Azeglio, fare seguito alla trasformazione dello stato sardo in stato italiano, non è riuscita. Il salto dell'Italia da “espressione geografica” a nazione è solo una mozione degli affetti e una ripetizione di slogan enfatici e retorici, incapaci di trasformare il sentimento nazionale proclamato in sentimento nazionale condiviso anche da chi italiano non era.
Le nazioni esistenti prima delle annessioni e che coincidevano con gli stati di allora, spesso a loro volte plurinazionali (come il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie), continuano ad esistere oggi, malgrado la grande mistificazione lessical-politica di Stato=Nazione. Per diversi mesi, gran parte della penisola italiana e la Sicilia fu sarda dopo la sua annessione al Regno di Sardegna, ma certo i napoletani, i siciliani, i parmensi, i toscani non si sentirono Nazione sarda. Come si può pensare che nel giro di poche ore, il 17 marzo 1861, tutti questi popoli furono trasformati d'incanto in “nazionali italiani”? La vulgata patriottarda lo afferma ma non è la realtà. O meglio è una realtà che ha lo stesso peso e valore dell'enfasi europeista: chi dei sardi, dei padani, dei sudtitolesi, degli italiani non si sente europeo? Detto questo, poi ognuno continua ad essere sardo, padano, sudtirolese, italiano.
Come i consiglieri regionali sardi tradurranno queste considerazioni banali in un progetto che stabilisca un rapporto nuovo fra la nazione sarda e le altre nazioni della Repubblica italiana è in mente Dei. Da quel che si capisce leggendo i giornali, il problema non se lo porranno e, come spesso capita in chi ha difficoltà a scegliere, i partiti troveranno forse un accordo non sul che cosa fare ma su come fare. Se questo “come” dovrà essere una commissione, una convenzione, o vattelappesca. Forse è il massimo che si può chiedere alla politica sarda oggi. Importante sarebbe che nel loro documento finale, i deputati sardi avvertissero che i loro elettori sono e si sentono parte di un popolo dotato di diritti internazionali che permangono, quale che sia la coscienza e il coraggio dei loro rappresentanti.

1 commento:

  1. @ gianfrancopintore

    Hai proprio ragione Gianfranco, se non è “la zattera della Medusa”, poco ci manca. Chi sa quante volte abbiamo usato questa espressione a cuor leggero, magari a sproposito. Ora ci siamo sopra, a un natante di quel tipo, in balia delle onde e senza nocchiero.
    Proprio come allora, qualcuno sta finendo di segare le gomene che tenevano assicurata la zattera alle scialuppe perché si è stancato di remare. Non vuole più trascinare un peso ritenuto inerte e pericoloso. Chi rimane nella zattera alla deriva, non trova di meglio da fare che distruggersi a vicenda.
    Avremo la capacità di fare di quest’Isola una scialuppa di salvataggio ben armata (in senso marinaresco) e ben guidata? E magari di metterci alla testa di un movimento che porti i rimasugli della Medusa a un approdo tranquillo?
    I sogni, almeno alla mia età, consolano.

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